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Messaggio Da fio Mar Apr 30, 2013 6:40 pm

Africa, la primavera tecnologica

Africa 2013: è l’era delle startup. «Non c’è mai stato tempo più favorevole ed eccitante di questo», ha decretato la rivista statunitense Forbes prima di rendere pubblica la lista delle cinque microimprese ad alto valore tecnologico più innovative a Sud del Sahara. La consacrazione definitiva dell’Africa come hub, uno snodo tecnologico da tenere d’occhio, è arrivata a fine gennaio con il tour del presidente di Google, Eric Schmidt. Tappe: Nairobi e Lagos, due capitali che stanno sfruttando le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e – ha detto Schmidt – si stanno accreditando come "incubatori" di imprese innovative nella nuova Africa cablata e connessa.

Nel 2012 i cavi a fibra ottica posti sul fondo degli oceani hanno completato il perimetro del continente e ormai offrono a quasi tutti i Paesi africani i vantaggi della banda larga, ovvero una connessione internet veloce e a basso costo.

Ma la rivoluzione informatica in Africa passa soprattutto attraverso i telefoni cellulari, posseduti da oltre 650 milioni di persone: grazie ad applicazioni come M-Farm i contadini africani, dal Kenya al Ghana, possono avere accesso ai prezzi dei prodotti agricoli sul mercato in tempo reale al costo di un sms. Sempre in Kenya, più di 15 milioni di persone (oltre la metà della popolazione adulta) utilizzano M-Pesa, il sistema di pagamento e trasferimento di denaro via sms lanciato nel 2007 dal colosso africano della telefonia mobile Safaricom. E in ambito scolastico startup come eLimu stanno cercando di dimostrare come fornire contenuti digitali invece dei tradizionali libri di testo sia più economico ed efficace e permetta di raggiungere un maggior numero di studenti, anche nelle aree più povere. E così via, dalla sanità alla democrazia, passando per applicazioni come BudgIT e CorruptionNET che permettono ai cittadini di "controllare" la trasparenza dei propri governi.

Le startup che fioriscono un po’ ovunque, ma soprattutto nelle metropoli africane, non riguardano in senso stretto solo il settore Itc, l’Information and comunication tecnology nelle sue infinite applicazioni. Il salto nell’era digitale in Africa ha dato impulso in senso più ampio a una nuova microimprenditorialità, che punta sull’innovazione per rispondere alle enormi sfide ambientali e sociali del continente. Una tendenza che sta attraendo l’attenzione di finanziatori sia profit che non profit, disponibili a dare ossigeno a imprese che partono dal piccolo, a volte dal piccolissimo, ma che hanno potenzialità di crescita rapida e su larga scala.
«Il sostegno alle startup è una modalità nuova di fare cooperazione internazionale» afferma Mario Molteni, direttore dell’Alta scuola impresa e società dell’Università Cattolica di Milano (Altis). «È quella che definiamo Impact Entrepreneurship: in un contesto in cui ci sono molti meno soldi bisogna passare dall’idea del trasferimento di denaro all’attivazione di una capacità imprenditoriale sul posto. D’altra parte questo nuovo approccio obbliga a un certo tipo di rapporto con il territorio, a scommettere sulle persone, implica una relazione più paritaria e anche più rischiosa perché per restare sul mercato bisogna avere il coraggio di aprirsi, avere più confidenza nelle tecnologie, scommettere sul fatto che un’impresa ben gestita sia uno strumento fondamentale per lo sviluppo».

Grazie a un finanziamento della Cei, Altis ha avviato nel 2011 un programma di formazione di imprenditori africani in collaborazione con il Tangaza College di Nairobi, che fa parte dell’Università cattolica dell’Est Africa e l’Institute of social ministry fondato dal comboniano padre Francesco Pierli. Da quest’anno il Master si è trasformato in un vero e proprio programma di incubazione di startup, tecnologiche e non. Si svolge interamente in Kenya ed è rivolto a una trentina di giovani che hanno già un’idea imprenditoriale che prevede un impatto positivo in ambito sociale o ambientale. I settori vanno dall’agribusiness alle energie rinnovabili, dalla gestione dei rifiuti, alla sanità e all’educazione. «Il 60% delle imprese sono for profit, le altre non profit» spiega Molteni, «ma anche queste ultime hanno come obiettivo la sostenibilità economica». Si parte con dieci giorni in cui si discute l’idea, poi per un mese e mezzo le persone interagiscono online con lezioni, esercitazioni, coaching e nel frattempo cominciano già ad avviare la propria attività. Il master prosegue con seminari intensivi nei week end e un’altra settimana full immersion, per poi concludersi con una "competizione" durante la quale gli imprenditori presentano i business plan alla comunità finanziaria del proprio Paese, al mondo del venture capital, del social venture capital e magari anche a qualche investitore internazionale che potrà essere presente o collegarsi via internet. «Il master in questo modo diventa un vero e proprio scivolo verso un nuova impresa» afferma Molteni.

Nel 2011 l’esperimento avviato da Altis ha ottenuto un importante riconoscimento da Ashoka, fondazione che incentiva l’imprenditoria sociale, e il premio permetterà quest’anno di avviare un altro Master in Ghana. Altis ha già contatti in Uganda, Sierra Leone, Togo e Mozambico: «Il nostro sogno – spiega Molteni – è costruire in Africa una rete di programmi analoghi e in contatto fra loro, in grado di scambiarsi modelli di business e mettere in comune esperienze, operando in ottica di franchising ad alta valenza sociale e ambientale».
Emanuela Citterio
Fonte:Avvenire
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