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In marcia verso Dadaab l'inferno della salvezza

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Messaggio Da fio Mer Ago 17, 2011 10:41 am

In marcia verso Dadaab l'inferno della salvezza

In marcia verso Dadaab l'inferno della salvezza Dadaad01g
Una madre tiene a se il piccolo a Dadaab

Il campo profughi fra Somalia e Kenya è l’ultimo rifugio dalla carestia. Ci vivono
400 mila disperati, molti son qui da 20 anni:Uscire è vietato»

DEMENICO QUIRICO INVIATO A LIBOI
Ancora sette chilometri, soltanto sette chilometri. Cosa sono di fronte a quelli che avete patito per undici giorni nella savana, passo dopo passo, paura dopo paura? Niente. Marciare non vi spaventa, siete africani e questo continente è fatto di gente sempre in cammino, in movimento, dispersa. Chi scappa dalla guerra, chi dalla siccità, chi dalla fame. Fuggono, girano, si disperdono. Non fermatevi, voi almeno siete salvi. Sono due anziani, alcuni giovani, quattro bambini.

l più piccolo è stretto tra le mani del padre, che lo tiene davanti a sè come un’offerta e una preghiera. Arrivano da Saku, per nutrirsi hanno succhiato le foglie dei pochi alberi che la siccità non ha ucciso. Per andar loro incontro, accompagnare l’ultima stazione del loro calvario, siamo saliti fino Liboi, alla frontiera tra Kenya e Somalia. La frontiera ufficialmente è chiusa ed è proibito passare: come era proibito venire qui, «perché ci sono banditi e la zona è pericolosa». Chissà. Ma, come spesso accade in Africa, il proibito diventa facilmente possibile: per noi, pagando 2000 scellini al poliziotto.

Per i somali, seguendo uno degli innumerevoli sentieri che attraversano una frontiera di 800 chilometri. Controllata da una polizia corrotta. La salvezza li accoglie così: immondizie, così tante che persino i pazientissimi caribù sembrano stanchi di camminare con passo da filosofi e fare gli spazzini, alberi morti, polvere e un immenso cimitero di carcasse di animali uccisi dalla sete, scheletri bianchi che la polvere non riesce a coprire. Sembra la Somalia da cui sono fuggiti: la stessa sete, la stessa disperazione. Eppure questa gente, adesso che ha passato la frontiera, incredibilmente è felice: con ancora addosso gli stracci zeppi di polvere, i piedi piagati da dieci giorni di cammino nella boscaglia, appena spenti i morsi della fame e della sete. Eppure è felice. Perché ha in testa un solo nome: Dadaab, Dadaab, la salvezza, il rifugio, la meta. Camminate ancora un poco. Gli ultimi novanta chilometri vi saranno risparmiati, a Liboi ogni giorno le Nazioni Unite mandano un bus dal fiammante colore verde, per portarli fino al campo.

Che mondo è mai questo? Consente che per tre, quattro milioni di persone il sogno sia un campo di rifugiati, una babilonica concentrazione di profughi, la più grande del mondo: Daadab. La spiegazione della loro gioia me l’ha data una giovane donna incinta che deposita tutta la sua speranza in un sorriso: «Ma qui non c’è la guerra. Ho vent’anni ed è l’unica cosa che ho conosciuto nella mia vita, Mio figlio nascerà qui e potrà conoscere la pace». Sono felici perché sono vivi, queste anime timorose, fragili figli innocenti della guerra dell’esilio e della fame. Eppure gli shabaab, i loro aguzzini, la maledizione da cui sono fuggiti, se la portano dentro: è in tutti i loro racconti, li comanda anche qui.

È nel settore del campo dove ci sono i rifugiati più antichi, gente che è qui da vent’anni, che trovo gente dallo sguardo privo di orizzonti, uomini dagli occhi opachi come la cenere. Olad: quando è arrivato aveva quattro anni, adesso ne ha 24, del mondo conosce solo questo campo, la sua intera vita si è consumata qui, in questo deserto di polvere di immondizie di rassegnazione. Ora che la carestia ha moltiplicato gli arrivi ci sono i giornalisti e le delegazioni governative, si discute, si promette.

Ma il silenzio di questi vent’anni come lo spieghiamo? Mentre giorno dopo giorno i somali erano garrotati prima da Siad Barre, un piccolo vampiro vile e sanguinario, e poi dai signori della guerra periferici businessmen del terrore, e infine dagli shabaab, ipocriti assassini che si nascondono dietro Dio? Perché tacevamo? I paesaggi non hanno mai colpa di quello che fanno gli uomini ma a Dadaab persino la natura sembra aver accettato di condividere i peccati. Tutto qui è morto: gli alberi la terra gli uomini le cose. La speranza. Per esistere, gli africani, i somali, hanno bisogno di spazio, di una terra senza frontiere e senza recinzioni, di un vasto orizzonte aperto. Rinchiusi si ammalano, diventano scheletri. Muoiono.

Non bisogna venire a Dadaad con gli aerei dell’assistenza internazionale che scaricano il cibo, il personale, le delegazioni politiche. Bisogna venire in auto da Nairobi, nove ore almeno, ed è come seguire nel paesaggio una lezione di storia dell’Africa. Dopo Nairobi, che come tutte le capitali africane è un piccolo centro di grattacieli per i ricchi di varia razza e colore e poi sterminate periferie per i poveri, c’è il Kenya che odora di erba umida; e poi terre calcinate e nude, sole accecante sul paesaggio, i baobab conficcati come spettri in vaste distese, la visione di un continente inclemente. Non ti sbagli quando sei vicino: senti come uno schiaffo caldo e la terra cambia colore, le carcasse delle bestie uccise dalla sete segnano il procedere, con la regolarità di paracarri.

Dadaab è il mondo: la violenza e la pietà, l’amore e la sopraffazione, l’umiliazione dell’essere umano e il suo riscatto. Dadaad siamo noi: un futuro di uomini sempre più ricchi che si affannano a salvare una moltitudine di umiliati e di offesi che la nostra viltà e i nostri errori hanno prodotto come un lebbra. Non è un campo di rifugiati, è una città, quattrocentomila abitanti, in continua espansione. Una città somala trapianta in terra kenyota, una spugna che assorbe continuamente dolore, uno spazio devastato traboccante di gente mutilazioni viscere piaghe ancora suppuranti, di spaventose cicatrici.

I campi di rifugiati, e questo è vecchio di vent’anni, rapidamente si organizzano in strutture, gironi danteschi, abitudini, gerarchie. Diventano silenziosamente eterni. Al centro ci sono gli arrivati da più tempo, i «privilegiati», quelli cui assegnavano un pezzo di terra e delle lamiere per costruire la «casa», sono i ricchi, loro. Perché oggi sono troppi, chi arriva si sistema ai margini, una capanna di frasche coperta di sacchi di plastica o stracci, attorno la «zeriba», la recinzione di rovi per difendersi dalle iene. Sono loro i più lontani dall’acqua e dal luogo dove si distribuisce il cibo.

A Dadaab si prega e si bestemmia, nascono bambini e si muore, ma per fortuna non di fame o di guerra, si fa l’amore e ci si lascia, si litiga e si ride. Ci si aggrappa alla propria «cabila», il clan, anche qui!, l’eterna maledizione che Dio ha dato ai somali. Non si sogna, perché Dadaab ha solo un’entrata e nessuna uscita: i somali in quanto rifugiati non hanno diritto di andare altrove. A Ifo, il campo più grande e più antico, uno dei tre in cui è divisa la città, c’è una strada con i negozi, dove trovi di tutto, la coca cola e i telefonini, il sapone e il materiale da costruzione, dove puoi telefonare a Mogadiscio o ai parenti fuggiti in America, o usare internet. Sdraiati nelle botteghe, avvolti nelle loro fute bianche, anche questi somali industriosi hanno solo due certezze: non vogliono tornare in Somalia e non vogliono vivere qui: in un altro Paese, uno qualsiasi, purché sia lontano.

Auguro buona fortuna ai miei somali che stanno per salire sul bus. Ma mi chiedo cosa può significare per questi uomini e queste donne essere fortunati: non morire di parto? Non essere uccisi da un colpo di kalashnikov? Non restare per sempre a Dadaab?
Fonte:La Stampa
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