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Kenya: Perché salvare il Corno d' Africa vuol dire salvare anche noi stessi.
PASSIONE KENYA :: Il nostro Kenya :: L'angolo delle curiosità :: Emergenza "Siccità in Afirca Orienteale"
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Kenya: Perché salvare il Corno d' Africa vuol dire salvare anche noi stessi.
Perché salvare il Corno d' Africa vuol dire salvare anche noi stessi.
Gli immensi campi profughi potrebbero segnare la fine della riproducibilità stessa della vita sociale.
L' immensa regione a sud-est dell' Africa Orientale è oggi lo snodo strategico più delicato riguardo alle fonti energetiche e alle vie di traffico verso l' India e la Cina. In quell' area vivono infiniti insiemi di tribù di antichissima civilizzazione, contadina e imperiale insieme: nel Corno d' Africa, nel nord del Kenya, nel sud dell' Etiopia, a Gibuti, nella regione di Karamoija in Uganda, nell' intera Somalia. E qui più di dieci milioni di persone sono minacciate dalla fame per la siccità che ha devastato le loro regioni con una implacabile ferocia e per la carestia che su di essa si è innescata, privando delle elementari fonti di sopravvivenza le tribù e le comunità di contadini coltivatori e allevatori, di pescatori e di pastori che in quelle zone per secoli sono sopravvissuti a molte siccità e a molte carestie. Adesso il pericolo è che la sopravvivenza non sia più assicurata e che gli immensi campi profughi segnino la fine della riproducibilità stessa della vita sociale. Sarebbe un disastro di proporzioni immani che si affiancherebbe all' attuale sciagura umanitaria. L' inserimento dell' Africa nella globalizzazione è caratterizzata dall' estensione delle coltivazioni di massa e dalla trasformazione in «merci mondiali» di alimenti che un tempo assicuravano la riproduzione di quei gruppi umani. Le siccità hanno da sempre periodicamente colpito quelle terre, terre che però nessuno ha mai abbandonato prima dell' avvento di un mercato capitalistico senza morali di sostegno, come invece accade oggi in Africa. Il raccolto si trasforma in commodities e deve servire per l' esportazione secondo i prezzi dell' oligopolio alimentare mondiale e non più a nutrire in primo luogo quelle comunità a cui ho fatto cenno. Di qui il crollo degli efficaci sistemi infrastrutturali che per secoli quelle popolazioni hanno creato, sotto la specie di commons good , per far fronte alle scarsità. Scarsità di acqua, di cibo, di fronte alle quali tuttavia si è sopravvissuti grazie al buon governo del mutuo aiuto. Inviare soltanto aiuti ai campi profughi - un' umanità dolente che vive nella paura e nell' abbandono - non basta: si dovrebbe intervenire per creare opere di irrigazione e di raccolta dell' acqua, utilizzando le moderne tecniche di coltivazione (Israele docet in questo campo), cercando di continuare a tenere insediate le comunità nei territori in cui storicamente si sono riprodotte. Certo: il dramma della fame è frutto anche di quello della guerra. In primo luogo in Somalia, dove il presidente Sharif Ahmed non controlla il territorio al sud del Paese in preda alle milizie radicali islamiche di al Shabbah - alla testa dell' insurrezione contro lo stesso governo - interrompendo ogni forma di aiuto internazionale e minacciando di ogni odiosa forma di ritorsione i gruppi di popolazione che li accettano. Del resto, il governo somalo resiste solo grazie alle truppe ugandesi e ruandesi inviate dall' Unione Africana: una probabile guerra senza fine. Ecco perché l' importanza di frenare l' esodo dalle campagne in quelle aree che fanno da corona alla Somalia e che in futuro potrebbero essere di fondamentale aiuto per una comune ricostruzione superando l' integralismo islamico. In questo senso la globalizzazione sregolata - esplosa in quei territori, distruggendo intere comunità di vita e di lavoro che si autoconservavano con lentissimi tassi di crescita che consentivano tuttavia il radicamento vitale e il popolamento comunitario - è stata un evento disastroso a cui occorre porre rimedio con una diversa politica di sfruttamento delle risorse, non fondata sull' integrazione di pochi gruppi di corrotti capi locali separati dal resto della popolazione e che compiono una politica di desertificazione territoriale. Questa torsione viziosa dell' intersezione nei mercati mondiali può mettere a rischio la crescita africana che è invece essenziale, oggi e in futuro, per le immense risorse umane e materiali che il continente possiede e che si debbono sfruttare a beneficio tanto dei mercati mondiali quanto delle popolazioni locali. È possibile far ciò. Del resto, se così non si farà, un mercato interno africano non potrà formarsi e la questione umanitaria si trasformerà nell' arresto della crescita economica, arresto che può dilagare su scala continentale. Ancora una volta la tragedia africana dimostra che l' avvento del mercato privo di una morale che lo regoli crea distruzione e morte nelle aree in via di sviluppo, privando le loro popolazioni delle storiche difese da esse create per far fronte alle catastrofi e impedisce la crescita economica, a svantaggio di tutti. RIPRODUZIONE RISERVATA
Sapelli Giulio
Fonte: Corriere della Sera
Gli immensi campi profughi potrebbero segnare la fine della riproducibilità stessa della vita sociale.
L' immensa regione a sud-est dell' Africa Orientale è oggi lo snodo strategico più delicato riguardo alle fonti energetiche e alle vie di traffico verso l' India e la Cina. In quell' area vivono infiniti insiemi di tribù di antichissima civilizzazione, contadina e imperiale insieme: nel Corno d' Africa, nel nord del Kenya, nel sud dell' Etiopia, a Gibuti, nella regione di Karamoija in Uganda, nell' intera Somalia. E qui più di dieci milioni di persone sono minacciate dalla fame per la siccità che ha devastato le loro regioni con una implacabile ferocia e per la carestia che su di essa si è innescata, privando delle elementari fonti di sopravvivenza le tribù e le comunità di contadini coltivatori e allevatori, di pescatori e di pastori che in quelle zone per secoli sono sopravvissuti a molte siccità e a molte carestie. Adesso il pericolo è che la sopravvivenza non sia più assicurata e che gli immensi campi profughi segnino la fine della riproducibilità stessa della vita sociale. Sarebbe un disastro di proporzioni immani che si affiancherebbe all' attuale sciagura umanitaria. L' inserimento dell' Africa nella globalizzazione è caratterizzata dall' estensione delle coltivazioni di massa e dalla trasformazione in «merci mondiali» di alimenti che un tempo assicuravano la riproduzione di quei gruppi umani. Le siccità hanno da sempre periodicamente colpito quelle terre, terre che però nessuno ha mai abbandonato prima dell' avvento di un mercato capitalistico senza morali di sostegno, come invece accade oggi in Africa. Il raccolto si trasforma in commodities e deve servire per l' esportazione secondo i prezzi dell' oligopolio alimentare mondiale e non più a nutrire in primo luogo quelle comunità a cui ho fatto cenno. Di qui il crollo degli efficaci sistemi infrastrutturali che per secoli quelle popolazioni hanno creato, sotto la specie di commons good , per far fronte alle scarsità. Scarsità di acqua, di cibo, di fronte alle quali tuttavia si è sopravvissuti grazie al buon governo del mutuo aiuto. Inviare soltanto aiuti ai campi profughi - un' umanità dolente che vive nella paura e nell' abbandono - non basta: si dovrebbe intervenire per creare opere di irrigazione e di raccolta dell' acqua, utilizzando le moderne tecniche di coltivazione (Israele docet in questo campo), cercando di continuare a tenere insediate le comunità nei territori in cui storicamente si sono riprodotte. Certo: il dramma della fame è frutto anche di quello della guerra. In primo luogo in Somalia, dove il presidente Sharif Ahmed non controlla il territorio al sud del Paese in preda alle milizie radicali islamiche di al Shabbah - alla testa dell' insurrezione contro lo stesso governo - interrompendo ogni forma di aiuto internazionale e minacciando di ogni odiosa forma di ritorsione i gruppi di popolazione che li accettano. Del resto, il governo somalo resiste solo grazie alle truppe ugandesi e ruandesi inviate dall' Unione Africana: una probabile guerra senza fine. Ecco perché l' importanza di frenare l' esodo dalle campagne in quelle aree che fanno da corona alla Somalia e che in futuro potrebbero essere di fondamentale aiuto per una comune ricostruzione superando l' integralismo islamico. In questo senso la globalizzazione sregolata - esplosa in quei territori, distruggendo intere comunità di vita e di lavoro che si autoconservavano con lentissimi tassi di crescita che consentivano tuttavia il radicamento vitale e il popolamento comunitario - è stata un evento disastroso a cui occorre porre rimedio con una diversa politica di sfruttamento delle risorse, non fondata sull' integrazione di pochi gruppi di corrotti capi locali separati dal resto della popolazione e che compiono una politica di desertificazione territoriale. Questa torsione viziosa dell' intersezione nei mercati mondiali può mettere a rischio la crescita africana che è invece essenziale, oggi e in futuro, per le immense risorse umane e materiali che il continente possiede e che si debbono sfruttare a beneficio tanto dei mercati mondiali quanto delle popolazioni locali. È possibile far ciò. Del resto, se così non si farà, un mercato interno africano non potrà formarsi e la questione umanitaria si trasformerà nell' arresto della crescita economica, arresto che può dilagare su scala continentale. Ancora una volta la tragedia africana dimostra che l' avvento del mercato privo di una morale che lo regoli crea distruzione e morte nelle aree in via di sviluppo, privando le loro popolazioni delle storiche difese da esse create per far fronte alle catastrofi e impedisce la crescita economica, a svantaggio di tutti. RIPRODUZIONE RISERVATA
Sapelli Giulio
Fonte: Corriere della Sera
dolcemagic- Sostenitore
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Data d'iscrizione : 23.10.09
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