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Cammelli per salvare i contadini africani dai cambiamenti climatici
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Cammelli per salvare i contadini africani dai cambiamenti climatici
LIVORNO. L’allevamento di cammelli potrebbe essere una scelta obbligata per 20 - 35 millioni di persone che vivono nelle zone semiaride dell’Africa che, a causa del cambiamento climatico, fra non molto non potranno più coltivare le loro terre. A dirlo è Philip Thornton, il co-autore di un rapporto sugli effetti del global warming in Africa e che lavora come ricercatore all’International livestock research institute (Ilri)di Nairobi, in Kenya.
Secondo Thornton «Entro il 2050, il rialzo delle temperature e la rarefazione delle precipitazioni in una zona che copre da 500.000 a un milione di chilometri quadrati di terre a basso rendimento (circa la superficie dell’Egitto) renderà l’agricoltura quasi impossibile.
Lo studio “Croppers to livestock keepers: livelihood transitions to 2050 in Africa due to climate change” è stato pubblicato su un numero speciale di Environmental Science and Policy e presentato ai Climate change talks che si concludono il 12 giugno a Bonn e suggerisce di ripensare e pianificare da subito i sistemi agricoli che saranno necessari entro pochi decenni, per esempio incrementando l’allevamento di specie più resistenti come capre, asini, cammelli ed alcune specie di bovini, per permettere agli agricoltori di disporre di una fonte di sussistenza alternativa.
Thornton ha spiegato all’Irin (l’agenzia stampa umanitaria dell’Onu) che «Le comunità vcolpite potrebbero seguire i passi delle comunità di pastori, che da molte generazioni si adattano alla variabilità climatica. IOntorno al 10% della popolazione dell’Africa sub-sahariana, cioè circa 72 millioni di persone, vivono dei percorsi naturali. La tribù Samburu, nel nord del Kenya, tradizionalmente composta da allevatori, ha iniziato l’allevamento dei cammelli nel corso degli ultimi due o tre decenni, perché la siccità aveva ridotto i pascoli, provocando delle malattie nelle mandrie di bovini che si sono estese ad alte mandrie, mentre le tribù vicine, che allevano cammelli, ne sono uscite meglio».
C’è un problema, l’allevamento di bestiame è spesso la concausa del degrado di terre già impoverite, il direttore dell’Ilri, Carlos Seré, spiega: «L´eventuale aumento del bestiame deve essere gestito in modo sostenibile, il nostro studio mostra che in molte parti d´Africa nei prossimi decenni, la vulnerabilità alle variazioni climatica, unita alla domanda di prodotti di origine animale sul mercato, incoraggerà molte comunità di agricoltori ad integrare la loro attività agricole con l’allevamento. Questo è il motivo per cui ora dobbiamo prepararci a questa prospettiva inevitabile».
Gli autori dello studio si sono basati sull’analisi delle regioni aridi e semi-aride dell’ovest . dell’est e del sud dell’Africa, dove la mancanza di pioggia sta portando a cattivi raccolti, con in media una buona stagione di crescita su 6 ed a volte anche meno.
Secondo diverse proiezioni metereologi che, nei prossimi anni dovrebbe andare anche peggio la stagione di possibile crescita delle coltivazioni dovrebbe ridursi a meno di 90 giorni, il che renderebbe impossibile produrre il mais, l’alimento base in gran parte dell’Africa, in alcune regioni ed anche i cereali resistenti alla siccità, come il miglio, diventeranno difficili da coltivare.
Per Thornton l’unica possibilità per risolvere il problema è l’allevamento: «lo studio aveva la finalità di sfruttare le previsioni sul cambiamento climatico per mettere in luce specifiche aree dell’Africa dove sarebbe saggio per la promozione l’allevamento del bestiame nelle piccole aziende agricole e aiutare gli agricoltori a gestire i rischi di tali attività. Tuttavia, esiste una discrepanza tra il tipo di informazioni localizzate sull’impatto dei cambiamenti climatici, delle quali abbiamo urgente bisogno, e su quali informazioni possono essere ottenute oggettivamente. A titolo di esempio: se su un futuro rialzo significativo della temperatura esiste un consenso, i modelli climatici non si accordano sempre sulle variazioni degli schemi delle precipitazioni e sul volume di queste precipitazioni in alcune regioni dell’Africa».
Secondo lo studio «Anche basandosi su uno scenario moderato delle emissioni di gas serra per i prossimi decenni, è probabile che vi siano sostanziali cambiamenti nei modelli Africani di mantenimento delle coltivazioni e del bestiame per la metà del secolo. Il potenziale di sussistenza delle zone di transizione può essere identificato, e può essere distinto in termini di caratteristiche, quali la loro accessibilità, che possono avere notevoli ripercussioni sul tipo di adattamento ed opzioni che possono essere vitali, ad esempio per coloro che sono relativamente vicini a grandi insediamenti umani, rimarrebbero entrambe con l´integrazione dei capi di bestiame in sistemi ad economia di mercato e per opportunità di lavoro al di fuori delle aziende agricole; per le comunità più remote, le opportunità di lavoro possono essere molto più limitata sia nel commercio che al di fuori delle aziende agricole. Al momento sono presenti significative popolazioni di persone in queste zone più remote di transizione, e sono ampiamente diffuse in tutto l’ovest, l’est e il sud dell’Africa. I risultati qui riportati suggeriscono che potrebbero essere necessarie modifiche sostanziali per la sussistenza alimentare della popolazione agricola, per migliorare i sistemi di sicurezza ed elevare il reddito. Gli impatti del cambiamento climatico in alcune delle terre agricole marginali del’Africa saranno probabilmente gravi e i tassi di povertà in queste zone sono già alti. I risultati di questa analisi suggeriscono inoltre che i poveri delle più remote zone di transizione sono suscettibili di essere eccessivamente colpiti. Il tipo di analisi qui presentata dovrebbe essere in grado di aiutare a realizzare sistemi altamente mirati per la promozione dell’allevamento del bestiame di proprietà e di facilitare la comprensione dei rischi di gestione capendo quale sia la più appropriata».
Tratto da www.greenreport.it
Secondo Thornton «Entro il 2050, il rialzo delle temperature e la rarefazione delle precipitazioni in una zona che copre da 500.000 a un milione di chilometri quadrati di terre a basso rendimento (circa la superficie dell’Egitto) renderà l’agricoltura quasi impossibile.
Lo studio “Croppers to livestock keepers: livelihood transitions to 2050 in Africa due to climate change” è stato pubblicato su un numero speciale di Environmental Science and Policy e presentato ai Climate change talks che si concludono il 12 giugno a Bonn e suggerisce di ripensare e pianificare da subito i sistemi agricoli che saranno necessari entro pochi decenni, per esempio incrementando l’allevamento di specie più resistenti come capre, asini, cammelli ed alcune specie di bovini, per permettere agli agricoltori di disporre di una fonte di sussistenza alternativa.
Thornton ha spiegato all’Irin (l’agenzia stampa umanitaria dell’Onu) che «Le comunità vcolpite potrebbero seguire i passi delle comunità di pastori, che da molte generazioni si adattano alla variabilità climatica. IOntorno al 10% della popolazione dell’Africa sub-sahariana, cioè circa 72 millioni di persone, vivono dei percorsi naturali. La tribù Samburu, nel nord del Kenya, tradizionalmente composta da allevatori, ha iniziato l’allevamento dei cammelli nel corso degli ultimi due o tre decenni, perché la siccità aveva ridotto i pascoli, provocando delle malattie nelle mandrie di bovini che si sono estese ad alte mandrie, mentre le tribù vicine, che allevano cammelli, ne sono uscite meglio».
C’è un problema, l’allevamento di bestiame è spesso la concausa del degrado di terre già impoverite, il direttore dell’Ilri, Carlos Seré, spiega: «L´eventuale aumento del bestiame deve essere gestito in modo sostenibile, il nostro studio mostra che in molte parti d´Africa nei prossimi decenni, la vulnerabilità alle variazioni climatica, unita alla domanda di prodotti di origine animale sul mercato, incoraggerà molte comunità di agricoltori ad integrare la loro attività agricole con l’allevamento. Questo è il motivo per cui ora dobbiamo prepararci a questa prospettiva inevitabile».
Gli autori dello studio si sono basati sull’analisi delle regioni aridi e semi-aride dell’ovest . dell’est e del sud dell’Africa, dove la mancanza di pioggia sta portando a cattivi raccolti, con in media una buona stagione di crescita su 6 ed a volte anche meno.
Secondo diverse proiezioni metereologi che, nei prossimi anni dovrebbe andare anche peggio la stagione di possibile crescita delle coltivazioni dovrebbe ridursi a meno di 90 giorni, il che renderebbe impossibile produrre il mais, l’alimento base in gran parte dell’Africa, in alcune regioni ed anche i cereali resistenti alla siccità, come il miglio, diventeranno difficili da coltivare.
Per Thornton l’unica possibilità per risolvere il problema è l’allevamento: «lo studio aveva la finalità di sfruttare le previsioni sul cambiamento climatico per mettere in luce specifiche aree dell’Africa dove sarebbe saggio per la promozione l’allevamento del bestiame nelle piccole aziende agricole e aiutare gli agricoltori a gestire i rischi di tali attività. Tuttavia, esiste una discrepanza tra il tipo di informazioni localizzate sull’impatto dei cambiamenti climatici, delle quali abbiamo urgente bisogno, e su quali informazioni possono essere ottenute oggettivamente. A titolo di esempio: se su un futuro rialzo significativo della temperatura esiste un consenso, i modelli climatici non si accordano sempre sulle variazioni degli schemi delle precipitazioni e sul volume di queste precipitazioni in alcune regioni dell’Africa».
Secondo lo studio «Anche basandosi su uno scenario moderato delle emissioni di gas serra per i prossimi decenni, è probabile che vi siano sostanziali cambiamenti nei modelli Africani di mantenimento delle coltivazioni e del bestiame per la metà del secolo. Il potenziale di sussistenza delle zone di transizione può essere identificato, e può essere distinto in termini di caratteristiche, quali la loro accessibilità, che possono avere notevoli ripercussioni sul tipo di adattamento ed opzioni che possono essere vitali, ad esempio per coloro che sono relativamente vicini a grandi insediamenti umani, rimarrebbero entrambe con l´integrazione dei capi di bestiame in sistemi ad economia di mercato e per opportunità di lavoro al di fuori delle aziende agricole; per le comunità più remote, le opportunità di lavoro possono essere molto più limitata sia nel commercio che al di fuori delle aziende agricole. Al momento sono presenti significative popolazioni di persone in queste zone più remote di transizione, e sono ampiamente diffuse in tutto l’ovest, l’est e il sud dell’Africa. I risultati qui riportati suggeriscono che potrebbero essere necessarie modifiche sostanziali per la sussistenza alimentare della popolazione agricola, per migliorare i sistemi di sicurezza ed elevare il reddito. Gli impatti del cambiamento climatico in alcune delle terre agricole marginali del’Africa saranno probabilmente gravi e i tassi di povertà in queste zone sono già alti. I risultati di questa analisi suggeriscono inoltre che i poveri delle più remote zone di transizione sono suscettibili di essere eccessivamente colpiti. Il tipo di analisi qui presentata dovrebbe essere in grado di aiutare a realizzare sistemi altamente mirati per la promozione dell’allevamento del bestiame di proprietà e di facilitare la comprensione dei rischi di gestione capendo quale sia la più appropriata».
Tratto da www.greenreport.it
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