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Il dramma dei somali in Kenya: una nuova deportazione
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Il dramma dei somali in Kenya: una nuova deportazione
Il dramma dei somali in Kenya: una nuova deportazione
In Kenya la comunità somala è discriminata e perseguitata: è in atto una vera ondata di xenofobia verso i cittadini kenioti di origine somala e i rifugiati somali, ma il dramma viene trascurato dai media internazionali.
I fatti di sangue sono iniziati il 21 settembre 2013 con l’attacco al centro commerciale Westgate a Nairobi: da quel momeno si sono susseguiti violenze e torture di cittadini kenioti di origine somala.
Oltre 3.000 arresti, deportatazione di rifugiati, detenzioni arbitrarie in condizioni disumane, estorsioni, abusi sessuali, furto e saccheggio di proprietà: la totale indifferenza nei confronti delle convenzioni internazionali in tema di protezione dei rifugiati (a cui il Kenya aderisce) e un muro di silenzio eretto dalla polizia nei confronti di media e associazioni per i diritti umani, in modo che nessuno potesse vedere e raccontare.
Dal gennaio 2014 migliaia di kenioti, solo per la loro origine somale e senza alcuna inchiesta, sono stati arrestati con l’accusa di appoggiare il gruppo terroristico somalo Al Shabaab e nel mese di marzo il Governo di Nairobi ha decretato la chiusura dei campi profughi somali e il ritorno forzato dei rifugiati in Somalia, nonostante che nel paese non esistano ancora le condizioni ideali per il loro reinserimento socio economico e per la loro sicurezza. Il Governo sta trasformando la comunità somala in un capro espiatorio nella lotta contro il terrorismo.
In realtà la strategia antiterroristica adottata dal Governo Kenyatta non dà i risultati sperati. Il Kenya rimane il Paese privilegiato dai terroristi di Al-Shabaab per compiere attentati con l’obiettivo di convincere gli eserciti burundese, keniota e ugandese a ritirarsi dalla Somalia. Il terrorismo trova terreno fertile grazie alla scarsa preparazione delle forze dell’ordine, alla incapacità dei servizi segreti e alla corruzione di alti funzionari statali.
Visti gli scarsi risultati ottenuti e il rifiuto ostinato di collaborare con i servizi segreti Americani, Britannici e Ugandesi, si fa strada tra i media kenioti l’ipotesi che il Presidente Kenyatta (sotto processo presso la Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità) stia permettendo gli attacchi terroristici in Kenya per rafforzare la sua posizione di “vittima” a livello internazionale ed sfuggire una condanna al tribunale dell’Aia.
L’errore principale della strategia antiterroristica decisa dal Presidente risiede nel connotare il problema terrorismo come una aggressione di un nemico esterno, Al-Shabaab. Tuttavia Al-Shabaab è la mente, non il braccio, e sfrutta problemi già esistenti all’interno della società keniota. Il proliferare e il rafforzarsi di questi gruppi estremisti è la diretta conseguenza della discriminazione sociale ed economica rivolta contro i giovani cittadini musulmani.
Human Right Watch ha denunciato il problema con un articolo sui presunti arresti di somali nella lotta contro il terrorismo e subito dopo un attivista per i diritti umani – cittadino keniota, ma residente a Londra – ha lanciato una petizione rivolta alla Corte Penale Internazionale affinché apra una inchiesta sul Presidente Uhuru Kenyatta, il Ministro degli Interni Joseph Ole Lenku e l’Ispettore Generale della Polizia David Kimaiyo, sospettati di aver architettato una persecuzione etnica della comunità somala in Kenya.
Purtroppo scarse sono le possibilità che la Corte Penale Internazionale decida di imputare al Presidente Kenyatta un’altra accusa oltre a quella già oggetto di processo e di iniziare una inchiesta giudiziaria contro il Ministro degli Interni e l’Ispettore Generale della Polizia. Gli interessi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia in tema di risorse petrolifere lasciano intravedere piuttosto un compromesso politico dove la giustizia sarà la prima vittima.
Fonte: lindro.it
In Kenya la comunità somala è discriminata e perseguitata: è in atto una vera ondata di xenofobia verso i cittadini kenioti di origine somala e i rifugiati somali, ma il dramma viene trascurato dai media internazionali.
I fatti di sangue sono iniziati il 21 settembre 2013 con l’attacco al centro commerciale Westgate a Nairobi: da quel momeno si sono susseguiti violenze e torture di cittadini kenioti di origine somala.
Oltre 3.000 arresti, deportatazione di rifugiati, detenzioni arbitrarie in condizioni disumane, estorsioni, abusi sessuali, furto e saccheggio di proprietà: la totale indifferenza nei confronti delle convenzioni internazionali in tema di protezione dei rifugiati (a cui il Kenya aderisce) e un muro di silenzio eretto dalla polizia nei confronti di media e associazioni per i diritti umani, in modo che nessuno potesse vedere e raccontare.
Dal gennaio 2014 migliaia di kenioti, solo per la loro origine somale e senza alcuna inchiesta, sono stati arrestati con l’accusa di appoggiare il gruppo terroristico somalo Al Shabaab e nel mese di marzo il Governo di Nairobi ha decretato la chiusura dei campi profughi somali e il ritorno forzato dei rifugiati in Somalia, nonostante che nel paese non esistano ancora le condizioni ideali per il loro reinserimento socio economico e per la loro sicurezza. Il Governo sta trasformando la comunità somala in un capro espiatorio nella lotta contro il terrorismo.
In realtà la strategia antiterroristica adottata dal Governo Kenyatta non dà i risultati sperati. Il Kenya rimane il Paese privilegiato dai terroristi di Al-Shabaab per compiere attentati con l’obiettivo di convincere gli eserciti burundese, keniota e ugandese a ritirarsi dalla Somalia. Il terrorismo trova terreno fertile grazie alla scarsa preparazione delle forze dell’ordine, alla incapacità dei servizi segreti e alla corruzione di alti funzionari statali.
Visti gli scarsi risultati ottenuti e il rifiuto ostinato di collaborare con i servizi segreti Americani, Britannici e Ugandesi, si fa strada tra i media kenioti l’ipotesi che il Presidente Kenyatta (sotto processo presso la Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità) stia permettendo gli attacchi terroristici in Kenya per rafforzare la sua posizione di “vittima” a livello internazionale ed sfuggire una condanna al tribunale dell’Aia.
L’errore principale della strategia antiterroristica decisa dal Presidente risiede nel connotare il problema terrorismo come una aggressione di un nemico esterno, Al-Shabaab. Tuttavia Al-Shabaab è la mente, non il braccio, e sfrutta problemi già esistenti all’interno della società keniota. Il proliferare e il rafforzarsi di questi gruppi estremisti è la diretta conseguenza della discriminazione sociale ed economica rivolta contro i giovani cittadini musulmani.
Human Right Watch ha denunciato il problema con un articolo sui presunti arresti di somali nella lotta contro il terrorismo e subito dopo un attivista per i diritti umani – cittadino keniota, ma residente a Londra – ha lanciato una petizione rivolta alla Corte Penale Internazionale affinché apra una inchiesta sul Presidente Uhuru Kenyatta, il Ministro degli Interni Joseph Ole Lenku e l’Ispettore Generale della Polizia David Kimaiyo, sospettati di aver architettato una persecuzione etnica della comunità somala in Kenya.
Purtroppo scarse sono le possibilità che la Corte Penale Internazionale decida di imputare al Presidente Kenyatta un’altra accusa oltre a quella già oggetto di processo e di iniziare una inchiesta giudiziaria contro il Ministro degli Interni e l’Ispettore Generale della Polizia. Gli interessi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia in tema di risorse petrolifere lasciano intravedere piuttosto un compromesso politico dove la giustizia sarà la prima vittima.
Fonte: lindro.it
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