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Kenya, tragico declino di un miracolo
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Kenya, tragico declino di un miracolo
Kenya, tragico declino di un miracolo
Il mio Kenya era un paese miracoloso, così miracoloso da irridere la geopolitica. Mentre tutti nel Corno d’Africa si massacravano, il mio Kenya rassicurava il mondo (e i tour-operator) con una stabilità politica che sembrava uscita dal cilindro di un prestigiatore. Se ripenso a quegli anni ricordo il fallimento dell’alleanza a tre tra Kenya, Uganda e Tanzania, la cosiddetta comunità dell’Africa Orientale. Erano partiti con l’idea di avere tutto in comune: flotte aeree e navali, linee ferroviarie, persino i francobolli. Ma litigarono quasi subito, e un anno dopo che Amin uscì dalla Comunità, Nyerere gli dichiarò guerra. Per andare da Nairobi a Dar-Es-Salam, Tanzania, bisognava prima volare da Nairobi a Kampala, e poi da Kampala a Dar-Es-Salam. Stessa cosa al ritorno. Se invece la destinazione era Kampala, volo da Nairobi a Dar-Es-Salam, poi Dar-Es-Salam Kampala. Niente voli diretti. Un manicomio, insomma!
Julius Nyerere preferì consegnare la Tanzania ai comunisti di Pechino. Idi Amin Dada spolpò l’Uganda fino all’osso con una dittatura tra le più efferate che essere umano ricordi. Nel Sudan pre-Darfur il presidente Nimeiri impose la Shari’a nel codice penale e aprì le porte del suo paese all’Islam più cupo e più sinistro di tutto il continente. Somali, etiopi e eritrei si disintegravano già allora con le loro faide infinite, Ogaden in testa. Il Kenya, invece, sembrava immune da tutta questa follia. Un metro oltre i suoi confini era genocidio, guerra civile, dittatura. Un metro dentro era il reef di Malindi e di Watamu, i charters della Francorosso e della Neckermann, i safari allo Tsavo e all’Amboseli, i Masai coi rullini della Kodak infilati nei lobi delle orecchie.
Certo, la democrazia del vecchio Kenyatta era molto discutibile, la corruzione inesorabile e petulante, il bracconaggio arginato con troppa sufficienza, i conflitti tribali, mai risolti, ardenti sotto le braci, l’insofferenza per i privilegi concessi dal presidente al suo popolo, i kikuyo, sempre più manifesta. Ma il carisma di Kenyatta era un mastice eccezionale che teneva unita la nazione, permettendo a noi bianchi di vivere il Kenya in pace e prosperità. Era anche l’unico paese africano, Sudafrica e Rhodesia esclusi, in cui i bianchi azzardavano investimenti. Poi il Vecchio morì. Il 22 agosto 1978. Venne da noi un militare amico della Base San Marco a informarci. “L’ho sentito adesso alla radio” e non aggiunse altro. Per sei giorni i bianchi di Malindi non si staccarono dalle radio e gli indiani fecero affari d’oro vendendo loro armi e munizioni. Ora che il Vecchio è morto, pensavano, il mastice non avrebbe più tenuto insieme nemmeno un foglio di carta da parati. Era giunta l’ora di regolare vecchi conti, di farla pagare agli odiati kikuyo. Per sei giorni aspettammo la marcia su Nairobi delle tribù guerriere, Masai in testa. Coi fucili in soggiorno.
Ma non ci fu nessuna marcia. I Masai restarono a casa loro, coi rullini della Kodak nei lobi delle orecchie e Daniel Arap-Moi fu molto convincente nel raccogliere la leadership del Vecchio. Dicevano sarebbe stato un presidente di transizione come l’egiziano Mubarak. Governò invece più di Kenyatta. Il flusso dei charters anziché fermarsi si triplicò, Malindi divenne sempre più enclave italiana e Rimini d’Africa. Ormai svernare una settimana a Malindi era diventato esotico come portare i figli a Gardaland. Intanto però il Kenya cambiava. La corruzione si faceva ancora più petulante e inesorabile, la criminalità più spietata e soprattutto organizzata – i criminali di cui ho memoria erano un pugno di sbandati della Tanzania o dell’Uganda, laceri e scalzi, che ogni tanto derubavano i turisti che si allontanavano dalle spiagge degli hotel con la minaccia del machete. Duravano un paio di settimane poi si eclissavano nel bush. I nuovi, oltre ai machete, dispongono di armi da fuoco con le quali non si limitano a minacciare.
Sì, il mio Kenya è cambiato tanto in questi anni. E in peggio, purtroppo. Dicono che Al-Qaeda ha trovato terreno fertile quaggiù. Basi, appoggi, complicità ad alto livello. Ma senza scomodare Osama basterebbe vedere come è cambiata Nairobi. L’ultima volta che ho camminato per Kibera c’erano 200 mila reietti che cercavano di sopravvivere in un lago di immondizia e di violenza. Oggi il lago è un oceano in cui affogano ogni giorno più di un milione di disperati. Kibera ha oscurato tutte le altre bidonvilles africane, Lagos compresa. Bambini che campano di sola colla, la più alta concentrazione di malati di HIV di tutto il paese, furti, stupri, omicidi, uno scenario apocalittico.
Nel 2008, il paese fu chiamato alle urne. Mwai Kibaki contro Raila Odinga, kikuyo come Kenyatta il primo, luo il secondo, la terza etnia del paese. Il primo vince ma il secondo scende in piazza denunciando brogli elettorali confermati anche dal ministro degli esteri francese Bernard Kouchner. Truccare le elezioni in Africa è prassi comune come una morte per malaria, ma stavolta no, stavolta Odinga e il suo elettorato non incassano il colpo in silenzio. Dicono che la capacità di sopportazione degli africani sia infinita. Non nel Kenya di oggi. E così in poche ore la rabbia di una sconfitta si è trasforma in una tragedia "alla ruandese".
Centinaia i morti, decine di migliaia gli sfollati, più di cinquanta persone arse vive in una chiesa di Eldoret, missionari che invocano aiuto, appelli disperati della Croce Rossa che non esita a parlare di "calamità naturale", piani di evacuazione per i turisti, bimbi assassinati nelle strade, case e fattorie in fiamme, lo spettro di pulizie etniche.
Pochi mesi dopo il Kenya rimette le ali. Evitata la balcanizzazione del paese, scongiurato il rischio di una guerra civile, messo un freno alle pulizie etniche, il Kenya riparte alla grande ma durante il Jamhuri Day, il quarantacinquesimo anniversario della sua Indipendenza la festa è macchiata dall’arresto di più di 50 attivisti e giornalisti rei d’aver esercitato il loro diritto costituzionale alla libertà d’espressione e di riunione. Protestavano perchè il Kenya era in piena crisi alimentare: prezzi alle stelle, corruzione, un piano per garantire farina di granturco a prezzi irrisori fallito tra scandali e polemiche mentre la popolazione moriva di fame. Protestavano perchè i parlamentari si erano aumentati gli stipendi a livelli stratosferici ma si rifiutano di pagare le tasse. Ma soprattutto perchè da mesi era in atto una campagna di repressione contro i media che non aveva precedenti nella storia del paese. Kibaki e i suoi cercavano di imbavagliare la stampa con il The Kenya Communications Amendment Bill o più laconicamente ICT Bill. la nemesi del giornalismo kenyano, un progetto di legge destinato a punire i giornalisti non allineati con pesanti ammende e pene detentive, a smantellare le emittenti sgradite al regime, a dare carta bianca al Ministro dell’Informazione di censurare, velinare, manipolare, giornali, radio e tivù.
Adesso, il nuovo spauracchio di questo Kenya sempre più turbolento instabile sono gli Shebaab, i fondamentalisti somali, che domenica hanno trasformato in mattatoi due chiese di Garissa.
Diceva Karen Blixen che il Kenya lo conosceva come pochi: “Non credo nel male, credo solo nell’orrore. In natura non esiste il male, esiste solo l’orrore nelle sue innumerevoli forme“.
La forma esatta di questo nuovo orrore la scopriremo solo nelle prossime settimane..
Lorenzo Cairoli. Scrittore, sceneggiatore, blogger giramondo, racconta il mondo di oggi e le sue contraddizioni.
Fonte La Stampa
Il mio Kenya era un paese miracoloso, così miracoloso da irridere la geopolitica. Mentre tutti nel Corno d’Africa si massacravano, il mio Kenya rassicurava il mondo (e i tour-operator) con una stabilità politica che sembrava uscita dal cilindro di un prestigiatore. Se ripenso a quegli anni ricordo il fallimento dell’alleanza a tre tra Kenya, Uganda e Tanzania, la cosiddetta comunità dell’Africa Orientale. Erano partiti con l’idea di avere tutto in comune: flotte aeree e navali, linee ferroviarie, persino i francobolli. Ma litigarono quasi subito, e un anno dopo che Amin uscì dalla Comunità, Nyerere gli dichiarò guerra. Per andare da Nairobi a Dar-Es-Salam, Tanzania, bisognava prima volare da Nairobi a Kampala, e poi da Kampala a Dar-Es-Salam. Stessa cosa al ritorno. Se invece la destinazione era Kampala, volo da Nairobi a Dar-Es-Salam, poi Dar-Es-Salam Kampala. Niente voli diretti. Un manicomio, insomma!
Julius Nyerere preferì consegnare la Tanzania ai comunisti di Pechino. Idi Amin Dada spolpò l’Uganda fino all’osso con una dittatura tra le più efferate che essere umano ricordi. Nel Sudan pre-Darfur il presidente Nimeiri impose la Shari’a nel codice penale e aprì le porte del suo paese all’Islam più cupo e più sinistro di tutto il continente. Somali, etiopi e eritrei si disintegravano già allora con le loro faide infinite, Ogaden in testa. Il Kenya, invece, sembrava immune da tutta questa follia. Un metro oltre i suoi confini era genocidio, guerra civile, dittatura. Un metro dentro era il reef di Malindi e di Watamu, i charters della Francorosso e della Neckermann, i safari allo Tsavo e all’Amboseli, i Masai coi rullini della Kodak infilati nei lobi delle orecchie.
Certo, la democrazia del vecchio Kenyatta era molto discutibile, la corruzione inesorabile e petulante, il bracconaggio arginato con troppa sufficienza, i conflitti tribali, mai risolti, ardenti sotto le braci, l’insofferenza per i privilegi concessi dal presidente al suo popolo, i kikuyo, sempre più manifesta. Ma il carisma di Kenyatta era un mastice eccezionale che teneva unita la nazione, permettendo a noi bianchi di vivere il Kenya in pace e prosperità. Era anche l’unico paese africano, Sudafrica e Rhodesia esclusi, in cui i bianchi azzardavano investimenti. Poi il Vecchio morì. Il 22 agosto 1978. Venne da noi un militare amico della Base San Marco a informarci. “L’ho sentito adesso alla radio” e non aggiunse altro. Per sei giorni i bianchi di Malindi non si staccarono dalle radio e gli indiani fecero affari d’oro vendendo loro armi e munizioni. Ora che il Vecchio è morto, pensavano, il mastice non avrebbe più tenuto insieme nemmeno un foglio di carta da parati. Era giunta l’ora di regolare vecchi conti, di farla pagare agli odiati kikuyo. Per sei giorni aspettammo la marcia su Nairobi delle tribù guerriere, Masai in testa. Coi fucili in soggiorno.
Ma non ci fu nessuna marcia. I Masai restarono a casa loro, coi rullini della Kodak nei lobi delle orecchie e Daniel Arap-Moi fu molto convincente nel raccogliere la leadership del Vecchio. Dicevano sarebbe stato un presidente di transizione come l’egiziano Mubarak. Governò invece più di Kenyatta. Il flusso dei charters anziché fermarsi si triplicò, Malindi divenne sempre più enclave italiana e Rimini d’Africa. Ormai svernare una settimana a Malindi era diventato esotico come portare i figli a Gardaland. Intanto però il Kenya cambiava. La corruzione si faceva ancora più petulante e inesorabile, la criminalità più spietata e soprattutto organizzata – i criminali di cui ho memoria erano un pugno di sbandati della Tanzania o dell’Uganda, laceri e scalzi, che ogni tanto derubavano i turisti che si allontanavano dalle spiagge degli hotel con la minaccia del machete. Duravano un paio di settimane poi si eclissavano nel bush. I nuovi, oltre ai machete, dispongono di armi da fuoco con le quali non si limitano a minacciare.
Sì, il mio Kenya è cambiato tanto in questi anni. E in peggio, purtroppo. Dicono che Al-Qaeda ha trovato terreno fertile quaggiù. Basi, appoggi, complicità ad alto livello. Ma senza scomodare Osama basterebbe vedere come è cambiata Nairobi. L’ultima volta che ho camminato per Kibera c’erano 200 mila reietti che cercavano di sopravvivere in un lago di immondizia e di violenza. Oggi il lago è un oceano in cui affogano ogni giorno più di un milione di disperati. Kibera ha oscurato tutte le altre bidonvilles africane, Lagos compresa. Bambini che campano di sola colla, la più alta concentrazione di malati di HIV di tutto il paese, furti, stupri, omicidi, uno scenario apocalittico.
Nel 2008, il paese fu chiamato alle urne. Mwai Kibaki contro Raila Odinga, kikuyo come Kenyatta il primo, luo il secondo, la terza etnia del paese. Il primo vince ma il secondo scende in piazza denunciando brogli elettorali confermati anche dal ministro degli esteri francese Bernard Kouchner. Truccare le elezioni in Africa è prassi comune come una morte per malaria, ma stavolta no, stavolta Odinga e il suo elettorato non incassano il colpo in silenzio. Dicono che la capacità di sopportazione degli africani sia infinita. Non nel Kenya di oggi. E così in poche ore la rabbia di una sconfitta si è trasforma in una tragedia "alla ruandese".
Centinaia i morti, decine di migliaia gli sfollati, più di cinquanta persone arse vive in una chiesa di Eldoret, missionari che invocano aiuto, appelli disperati della Croce Rossa che non esita a parlare di "calamità naturale", piani di evacuazione per i turisti, bimbi assassinati nelle strade, case e fattorie in fiamme, lo spettro di pulizie etniche.
Pochi mesi dopo il Kenya rimette le ali. Evitata la balcanizzazione del paese, scongiurato il rischio di una guerra civile, messo un freno alle pulizie etniche, il Kenya riparte alla grande ma durante il Jamhuri Day, il quarantacinquesimo anniversario della sua Indipendenza la festa è macchiata dall’arresto di più di 50 attivisti e giornalisti rei d’aver esercitato il loro diritto costituzionale alla libertà d’espressione e di riunione. Protestavano perchè il Kenya era in piena crisi alimentare: prezzi alle stelle, corruzione, un piano per garantire farina di granturco a prezzi irrisori fallito tra scandali e polemiche mentre la popolazione moriva di fame. Protestavano perchè i parlamentari si erano aumentati gli stipendi a livelli stratosferici ma si rifiutano di pagare le tasse. Ma soprattutto perchè da mesi era in atto una campagna di repressione contro i media che non aveva precedenti nella storia del paese. Kibaki e i suoi cercavano di imbavagliare la stampa con il The Kenya Communications Amendment Bill o più laconicamente ICT Bill. la nemesi del giornalismo kenyano, un progetto di legge destinato a punire i giornalisti non allineati con pesanti ammende e pene detentive, a smantellare le emittenti sgradite al regime, a dare carta bianca al Ministro dell’Informazione di censurare, velinare, manipolare, giornali, radio e tivù.
Adesso, il nuovo spauracchio di questo Kenya sempre più turbolento instabile sono gli Shebaab, i fondamentalisti somali, che domenica hanno trasformato in mattatoi due chiese di Garissa.
Diceva Karen Blixen che il Kenya lo conosceva come pochi: “Non credo nel male, credo solo nell’orrore. In natura non esiste il male, esiste solo l’orrore nelle sue innumerevoli forme“.
La forma esatta di questo nuovo orrore la scopriremo solo nelle prossime settimane..
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