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Così i biofuels si mangiano l’Africa
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Così i biofuels si mangiano l’Africa
Così i biofuels si mangiano l’Africa
29 luglio 2011
ILUC, questione alimentare e sociale: per il Commissario non esistono. Per ONG, economisti e climatologi sì.
I biocarburanti infiammano Bruxelles. Dopo la pubblicazione, dieci giorni fa, delle prime sette certificazioni per la sostenibilità dei biofuels e della loro filiera produttiva, Giornalettismo ha approfondito il tema, che in Italia è poco conosciuto (benché anche nel nostro paese l’industria del settore sia ben presente e in crescita), ma che divide il Parlamento Europeo e la comunità politica e mediatica che vi si sviluppa attorno. Nei prossimi anni, in vista degli obiettivi energetici al 2020, il mercato della benzina verde avrà un peso sempre maggiore, sia a livello economico che di impatto ambientale, anche in Italia.
LA SFIDA ENERGETICA - L’interrogativo è sempre lo stesso, ormai cruciale nella pianificazione dello sviluppo da diversi anni: come mitigare, e se possibile scongiurare, i rischi dovuti al cambiamento climatico e alla deplezione delle fonti fossili senza distruggere l’economia mondiale. Questione che i climatologi denunciano da anni ma che solo da poco viene presa in seria considerazione dai governi e dall’Unione Europea. I biocarburanti sono una soluzione che secondo alcuni autorevoli analisti è poco più di uno specchietto per allodole: ricavare combustibile dalle piante comporta una filiera lunga, alto impatto sui suoli e sulle popolazioni che li abitano, e garantisce una riduzione di emissioni piuttosto bassa. Inoltre, la produzione di queste sostanze rimane legata all’alta disponibilità di fonti fossili a basso costo: non si tratta dunque di un’energia alternativa ma solo di una strategia per ridurre sul breve e medio termine le emissioni dovute al sistema trasporti.
LA SCOMMESSA DELL’UE - Tuttavia, l’Unione Europea considera i biocombustibili come l’unica alternativa verosimile al petrolio, e per il 2020 ha fissato un obiettivo del 10% di rinnovabili sul totale dei carburanti impiegati in mobilità. Questo 10% sarà composto per la maggior parte, in base ai piani energetici forniti dagli stati membri, di biocombustibili. Che dovranno naturalmente essere “garantiti” a emissione ridotta, di almeno il 35% rispetto alla benzina normale. Eppure, aldilà dei problemi di efficienza vi sono due punti critici su cui ancora la Commissione Europea non ha preso una posizione chiara, e solo l’ILUC (cambio d’uso dei suoli indiretto, in inglese indirect land use change) e la questione alimentare. Il motivo per cui l’UE continua a tergiversare su questi punti è oggetto di discussione. Ma qualche elemento in più si può ricavare valutando il ruolo di quest’industria nascente, ma già fortemente sostenuta da governi ed Europa, all’interno del mercato dell’energia. Il punto di partenza di questa storia è naturalmente Bruxelles, dove Commissione sta emanando in questi mesi le linee guida che governeranno il settore da oggi al 2020.
IL COMMISSARIO E I RISCHI FANTASMA - La portavoce del Commissario per l’Energia Günther Oettinger, Marlene Holzner, ha parlato nei giorni scorsi presentando la posizione del proprio gabinetto, che in tema di biocarburanti lavora in co-leading con la Commissione sul clima. E ha rilasciato dichiarazioni che hanno scioccato molti. In primo luogo, ha affermato che il controverso “problema alimentare” non esiste: nessuna zona agricola coltivata per scopo alimentare è stata riconvertita a coltivazioni vegetali per biocombustibili. Secondo Holzner semplicemente non ci sono prove dell’esistenza di un simile fenomeno. Anzi, alcuni studi, che riscontrano un legame tra la crescita della produzione dei biofuels e il prezzo degli alimenti a livello globale, attesterebbero questo aumento intorno ad un trascurabile 2-3%. Dunque, l’intera faccenda del rischio alimentare sarebbe una bufala, montata perlopiù dalle associazioni ambientaliste e ONG per farsi pubblicità e sostenere le proprie raccolte di fondi. Dopo un iniziale stupore, che ha portato la maggior parte degli intervistati a chiedersi “come sia possibile affermare certe cose con tanta leggerezza, quando si parla ai massimi livelli di policy making mondiale”, le repliche sono state approfondite e puntuali.
ACTION AID E IL KENYA - Il primo a rispondere è stato Chris Coxon, Communication and Media Officer di Action Aid international per l’Europa, che ha raccontato una storia interessante: “Noi di Action Aid smentiamo decisamente l’affermazione del Commissario (della sua portavoce, ndr) secondo cui i biocarburanti non hanno effetto sui prezzi del cibo. I biofuels costituiscono il 90% del 10% di energia rinnovabile posto come obiettivo nella Renewable Energy Directive dell’UE e l’assoluta maggioranza di questi sarà di prima generazione, cioè prodotta industrialmente. Questo significa che i biofuels sono ottenuti da prodotti alimentari. Sappiamo già che in Europa non c’è sufficiente terreno libero per affinché i 27 stati membri possano soddisfare le proprie esigenze, ed infatti stiamo assistendo ad una crescita del fenomeno del “land grabbing” (“sgraffignare territorio”) nei paesi in via di sviluppo. Questo avviene in concomitanza con la competizione delle compagnie per accaparrarsi i vantaggi dello sviluppo massivo del consumo dei biocombustibili da qui al 2020, e i relativi incentivi. Un caso di cui possiamo testimoniare direttamente è quello di una comunità che vive nelle foreste del Dakatcha, nella regione costiera del Kenya. Questa comunità è composta di 20mila persone che stanno subendo l’espulsione dalla terra in cui hanno vissuto per centinaia di anni per lasciare il posto alle coltivazioni di biofuel da parte di una compagnia italiana”.
VOLER BENE ALL’AFRICA - La Nuove Iniziative Industriali, a cui si riferisce Coxon, è una compagnia fondata da Luciano Orlandi, che ha lavorato negli anni Ottanta con il gruppo Jenbacher, oggi di proprietà di General Electric. Un industriale di vecchia data che oggi si definisce “L’italiano green che vuole bene all’Africa” e si paragona addirittura a Enrico Mattei. Alla luce di quanto si legge nel rapporto pubblicato da Action Aid su questo caso, il concetto di “voler bene” è una libera interpretazione: “La comunità – continua Coxon – viene espulsa senza alcuna forma di compensazione e non gli è stata offerta nessuna residenza alternativa. Facevano affidamento sulla terra per coltivare il loro cibo (mais e cassava) e si basavano sulla produzione di ananas per ricavare i soldi necessari a mandare i loro figli a scuola. La compagnia ha fatto sapere che una larga parte del biocarburante prodotto verrà esportato in Europa per farne biodiesel. Hanno promesso di costruire una strada, una scuola, una clinica e altre strutture, ma nessuno di questi impegni è stato ratificato sulla carta e l’impressione resta quella di un tentativo di “comprare” la comunità. Gli abitanti hanno fatto sapere di non essere stati consultati riguardo al progetto, il che significa una violazione dei diritti umani.
AFFAMARE IL MONDO - Sfortunatamente, il caso del Dakatcha non è unico ed episodi del genere stanno avvenendo in America Latina, Africa e Asia. Le comunità stanno perdendo accesso al loro terreno, in cui coltivano i loro alimenti. Questo è un problema enorme dato che più del 90% del cibo in Africa è coltivato da contadini, su piccola scala (la maggior parte sono donne). Vorremmo perciò che i biofuels industriali venissero eliminati dagli obiettivi dell’UE per le energie rinnovabili: non si possono affamare intere popolazioni per produrre energia per l’Europa. In un rapporto commissionato durante l’incontro dei Ministeri dell’Agricoltura del G20, 10 organizzazioni internazionali, compresa la FAO, l’OCSE, la Banca Mondiale e il World Food Programme hanno avvertito che la domanda di cibo e l’incremento dell’uso dei suoli per la produzione di biocarburanti sta facendo aumentare i prezzi del cibo a livello globale, e continuerà a farlo nel futuro. Visti questi dati, ci sembra che l’Unione Europea abbia incluso i biocombustibili nella sua politica per le energie rinnovabili ignorando l’impatto della loro produzione. Senza contare il fatto che molti biocarburanti rilasciano più emissioni di quelli fossili, se si prende in considerazione anche la filiera produttiva”.
AIUTI O RISARCIMENTI? - Una bocciatura piena da parte di Action Aid che, tramite i rapporti prodotti sul tema, offre anche spunti sulle affermazioni della portavoce Holzner. Sarà vero che non esistono prove del rischio alimentare che quest’industria comporta? Che la denuncia è solo un modo per farsi pubblicità? I dati dicono di no. E sul caso del Kenia, oltre a un rapporto approfondito, ci sono anche le fotografie. Ovviamente, sussiste la possibilità che gli ambientalisti corrotti abbiano contraffatto tutto in cerca di fama e denaro. Ma onestamente pare non sia così. Ci pare anzi che tutti gli sbandierati aiuti economici provenienti dall’Occidente sappiano di risarcimento (parziale) per lo smantellamento delle economie locali, della cultura e della società dei paesi in via di sviluppo. Affermazioni molto simili a quelle di Action Aid provengono anche da Oxfam international, per bocca di Marc Olivier Herman, Economic Justice Policy Leader per l’Europa, che esprime forti riserve sulle parole della portavoce Holzner. Oxfam si occupa di lotta alla povertà a livello globale, e può fornire innumerevoli studi, non commissionati da Greenpeace o da altra associazione ambientalista in cerca di notorietà, che attestano il legame tra prezzi alimentari e produzione di biofuels.
L’ECONOMIA DEL CIBO - “Il target del 10% per i trasporti sostenibili, stabilito dall’UE per il 2020, in base ai piani energetici presentati dai Paesi Membri consterà quasi esclusivamente di biocarburanti di prima generazione – ricorda Herman -. Questo obiettivo sta già producendo un’ondata di espulsioni e sottrazione di territori nei paesi in via di sviluppo. Le donne sono spesso le prime vittime dato che in genere non possono rivendicare la proprietà della terra che coltivano. Quei territori sono semplicemente identificati da governi e investitori come ‘disponibili’. Inoltre, l’aumento della volatilità dei prezzi del cibo crea più domanda per le commodities degli alimentari e facilitando la contaminazione dei prezzi tra i mercati dell’energia e quelli del cibo”. Non si tratta dunque solo di cibo. Come in ogni sistema complesso, le ricadute sono molte e imprevedibili. Qui, secondo le associazioni, c’è un serio problema sociale, mascherato da festosi annunci sullo “sviluppo” delle zone povere del globo.
Fonte:Giornalettismo
29 luglio 2011
ILUC, questione alimentare e sociale: per il Commissario non esistono. Per ONG, economisti e climatologi sì.
I biocarburanti infiammano Bruxelles. Dopo la pubblicazione, dieci giorni fa, delle prime sette certificazioni per la sostenibilità dei biofuels e della loro filiera produttiva, Giornalettismo ha approfondito il tema, che in Italia è poco conosciuto (benché anche nel nostro paese l’industria del settore sia ben presente e in crescita), ma che divide il Parlamento Europeo e la comunità politica e mediatica che vi si sviluppa attorno. Nei prossimi anni, in vista degli obiettivi energetici al 2020, il mercato della benzina verde avrà un peso sempre maggiore, sia a livello economico che di impatto ambientale, anche in Italia.
LA SFIDA ENERGETICA - L’interrogativo è sempre lo stesso, ormai cruciale nella pianificazione dello sviluppo da diversi anni: come mitigare, e se possibile scongiurare, i rischi dovuti al cambiamento climatico e alla deplezione delle fonti fossili senza distruggere l’economia mondiale. Questione che i climatologi denunciano da anni ma che solo da poco viene presa in seria considerazione dai governi e dall’Unione Europea. I biocarburanti sono una soluzione che secondo alcuni autorevoli analisti è poco più di uno specchietto per allodole: ricavare combustibile dalle piante comporta una filiera lunga, alto impatto sui suoli e sulle popolazioni che li abitano, e garantisce una riduzione di emissioni piuttosto bassa. Inoltre, la produzione di queste sostanze rimane legata all’alta disponibilità di fonti fossili a basso costo: non si tratta dunque di un’energia alternativa ma solo di una strategia per ridurre sul breve e medio termine le emissioni dovute al sistema trasporti.
LA SCOMMESSA DELL’UE - Tuttavia, l’Unione Europea considera i biocombustibili come l’unica alternativa verosimile al petrolio, e per il 2020 ha fissato un obiettivo del 10% di rinnovabili sul totale dei carburanti impiegati in mobilità. Questo 10% sarà composto per la maggior parte, in base ai piani energetici forniti dagli stati membri, di biocombustibili. Che dovranno naturalmente essere “garantiti” a emissione ridotta, di almeno il 35% rispetto alla benzina normale. Eppure, aldilà dei problemi di efficienza vi sono due punti critici su cui ancora la Commissione Europea non ha preso una posizione chiara, e solo l’ILUC (cambio d’uso dei suoli indiretto, in inglese indirect land use change) e la questione alimentare. Il motivo per cui l’UE continua a tergiversare su questi punti è oggetto di discussione. Ma qualche elemento in più si può ricavare valutando il ruolo di quest’industria nascente, ma già fortemente sostenuta da governi ed Europa, all’interno del mercato dell’energia. Il punto di partenza di questa storia è naturalmente Bruxelles, dove Commissione sta emanando in questi mesi le linee guida che governeranno il settore da oggi al 2020.
IL COMMISSARIO E I RISCHI FANTASMA - La portavoce del Commissario per l’Energia Günther Oettinger, Marlene Holzner, ha parlato nei giorni scorsi presentando la posizione del proprio gabinetto, che in tema di biocarburanti lavora in co-leading con la Commissione sul clima. E ha rilasciato dichiarazioni che hanno scioccato molti. In primo luogo, ha affermato che il controverso “problema alimentare” non esiste: nessuna zona agricola coltivata per scopo alimentare è stata riconvertita a coltivazioni vegetali per biocombustibili. Secondo Holzner semplicemente non ci sono prove dell’esistenza di un simile fenomeno. Anzi, alcuni studi, che riscontrano un legame tra la crescita della produzione dei biofuels e il prezzo degli alimenti a livello globale, attesterebbero questo aumento intorno ad un trascurabile 2-3%. Dunque, l’intera faccenda del rischio alimentare sarebbe una bufala, montata perlopiù dalle associazioni ambientaliste e ONG per farsi pubblicità e sostenere le proprie raccolte di fondi. Dopo un iniziale stupore, che ha portato la maggior parte degli intervistati a chiedersi “come sia possibile affermare certe cose con tanta leggerezza, quando si parla ai massimi livelli di policy making mondiale”, le repliche sono state approfondite e puntuali.
ACTION AID E IL KENYA - Il primo a rispondere è stato Chris Coxon, Communication and Media Officer di Action Aid international per l’Europa, che ha raccontato una storia interessante: “Noi di Action Aid smentiamo decisamente l’affermazione del Commissario (della sua portavoce, ndr) secondo cui i biocarburanti non hanno effetto sui prezzi del cibo. I biofuels costituiscono il 90% del 10% di energia rinnovabile posto come obiettivo nella Renewable Energy Directive dell’UE e l’assoluta maggioranza di questi sarà di prima generazione, cioè prodotta industrialmente. Questo significa che i biofuels sono ottenuti da prodotti alimentari. Sappiamo già che in Europa non c’è sufficiente terreno libero per affinché i 27 stati membri possano soddisfare le proprie esigenze, ed infatti stiamo assistendo ad una crescita del fenomeno del “land grabbing” (“sgraffignare territorio”) nei paesi in via di sviluppo. Questo avviene in concomitanza con la competizione delle compagnie per accaparrarsi i vantaggi dello sviluppo massivo del consumo dei biocombustibili da qui al 2020, e i relativi incentivi. Un caso di cui possiamo testimoniare direttamente è quello di una comunità che vive nelle foreste del Dakatcha, nella regione costiera del Kenya. Questa comunità è composta di 20mila persone che stanno subendo l’espulsione dalla terra in cui hanno vissuto per centinaia di anni per lasciare il posto alle coltivazioni di biofuel da parte di una compagnia italiana”.
VOLER BENE ALL’AFRICA - La Nuove Iniziative Industriali, a cui si riferisce Coxon, è una compagnia fondata da Luciano Orlandi, che ha lavorato negli anni Ottanta con il gruppo Jenbacher, oggi di proprietà di General Electric. Un industriale di vecchia data che oggi si definisce “L’italiano green che vuole bene all’Africa” e si paragona addirittura a Enrico Mattei. Alla luce di quanto si legge nel rapporto pubblicato da Action Aid su questo caso, il concetto di “voler bene” è una libera interpretazione: “La comunità – continua Coxon – viene espulsa senza alcuna forma di compensazione e non gli è stata offerta nessuna residenza alternativa. Facevano affidamento sulla terra per coltivare il loro cibo (mais e cassava) e si basavano sulla produzione di ananas per ricavare i soldi necessari a mandare i loro figli a scuola. La compagnia ha fatto sapere che una larga parte del biocarburante prodotto verrà esportato in Europa per farne biodiesel. Hanno promesso di costruire una strada, una scuola, una clinica e altre strutture, ma nessuno di questi impegni è stato ratificato sulla carta e l’impressione resta quella di un tentativo di “comprare” la comunità. Gli abitanti hanno fatto sapere di non essere stati consultati riguardo al progetto, il che significa una violazione dei diritti umani.
AFFAMARE IL MONDO - Sfortunatamente, il caso del Dakatcha non è unico ed episodi del genere stanno avvenendo in America Latina, Africa e Asia. Le comunità stanno perdendo accesso al loro terreno, in cui coltivano i loro alimenti. Questo è un problema enorme dato che più del 90% del cibo in Africa è coltivato da contadini, su piccola scala (la maggior parte sono donne). Vorremmo perciò che i biofuels industriali venissero eliminati dagli obiettivi dell’UE per le energie rinnovabili: non si possono affamare intere popolazioni per produrre energia per l’Europa. In un rapporto commissionato durante l’incontro dei Ministeri dell’Agricoltura del G20, 10 organizzazioni internazionali, compresa la FAO, l’OCSE, la Banca Mondiale e il World Food Programme hanno avvertito che la domanda di cibo e l’incremento dell’uso dei suoli per la produzione di biocarburanti sta facendo aumentare i prezzi del cibo a livello globale, e continuerà a farlo nel futuro. Visti questi dati, ci sembra che l’Unione Europea abbia incluso i biocombustibili nella sua politica per le energie rinnovabili ignorando l’impatto della loro produzione. Senza contare il fatto che molti biocarburanti rilasciano più emissioni di quelli fossili, se si prende in considerazione anche la filiera produttiva”.
AIUTI O RISARCIMENTI? - Una bocciatura piena da parte di Action Aid che, tramite i rapporti prodotti sul tema, offre anche spunti sulle affermazioni della portavoce Holzner. Sarà vero che non esistono prove del rischio alimentare che quest’industria comporta? Che la denuncia è solo un modo per farsi pubblicità? I dati dicono di no. E sul caso del Kenia, oltre a un rapporto approfondito, ci sono anche le fotografie. Ovviamente, sussiste la possibilità che gli ambientalisti corrotti abbiano contraffatto tutto in cerca di fama e denaro. Ma onestamente pare non sia così. Ci pare anzi che tutti gli sbandierati aiuti economici provenienti dall’Occidente sappiano di risarcimento (parziale) per lo smantellamento delle economie locali, della cultura e della società dei paesi in via di sviluppo. Affermazioni molto simili a quelle di Action Aid provengono anche da Oxfam international, per bocca di Marc Olivier Herman, Economic Justice Policy Leader per l’Europa, che esprime forti riserve sulle parole della portavoce Holzner. Oxfam si occupa di lotta alla povertà a livello globale, e può fornire innumerevoli studi, non commissionati da Greenpeace o da altra associazione ambientalista in cerca di notorietà, che attestano il legame tra prezzi alimentari e produzione di biofuels.
L’ECONOMIA DEL CIBO - “Il target del 10% per i trasporti sostenibili, stabilito dall’UE per il 2020, in base ai piani energetici presentati dai Paesi Membri consterà quasi esclusivamente di biocarburanti di prima generazione – ricorda Herman -. Questo obiettivo sta già producendo un’ondata di espulsioni e sottrazione di territori nei paesi in via di sviluppo. Le donne sono spesso le prime vittime dato che in genere non possono rivendicare la proprietà della terra che coltivano. Quei territori sono semplicemente identificati da governi e investitori come ‘disponibili’. Inoltre, l’aumento della volatilità dei prezzi del cibo crea più domanda per le commodities degli alimentari e facilitando la contaminazione dei prezzi tra i mercati dell’energia e quelli del cibo”. Non si tratta dunque solo di cibo. Come in ogni sistema complesso, le ricadute sono molte e imprevedibili. Qui, secondo le associazioni, c’è un serio problema sociale, mascherato da festosi annunci sullo “sviluppo” delle zone povere del globo.
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