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Progetto di cooperazione internazionale: "Fareassieme la scuola in Kenia"

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Progetto di cooperazione internazionale: "Fareassieme la scuola in Kenia"  Empty Progetto di cooperazione internazionale: "Fareassieme la scuola in Kenia"

Messaggio Da dolcemagic Dom Ago 08, 2010 3:03 pm

Progetto di cooperazione internazionale: "Fareassieme la scuola in Kenia" .

Voci costrette al silenzio dell’ abbandono e del pregiudizio, che riaffiorano, portatrici di un messaggio corale di solidarietà, finalmente riconsegnate a una dimensione fatta di incontro e scambio autentici, affrancati da ogni pregiudizio.

Un riscatto che diventa viatico per la condivisione di esperienze, di istanze, di sensibilità, che inducono alla comprensione dei bisogni e delle risorse dell’ Altro, la cui diversità diventa ragione di arricchimento e di crescita comune, e non più oggetto di discriminazione e di stigma sociale. Parole sciolte dai lacci della paura, che si fanno canto di emancipazione per i malati psichiatrici e le loro famiglie, che vivono quotidianamente il senso della solitudine e della sconfitta. Un proposito cullato con dedizione da una rete di partner italiani, in primis il Coordinamento Nazionale “Le parole Ritrovate”, in collaborazione con la ONG Itake, e giunto, col suo carico di speranza, nell’ Africa attanagliata dalla miseria e dalla disperazione. Muyeye, piccolo villaggio alle porte di Malindi, in Kenia, è stato infatti scelto quale destinatario di un progetto di cooperazione internazionale dal titolo “Fareassieme la ‘nostra’ scuola a Muyeye. Un ramo di follia fa più bello l’albero della vita”, in cui un gruppo numeroso di utenti, familiari, operatori e cittadini della salute mentale di tutta Italia si è impegnato fattivamente, sia a livello di contribuzione economica che di presenza personale, nella costruzione di una scuola. Il progetto, che si inquadra nell’ ambito del piano quinquennale approvato nel 2003 dal Governo del Presidente Mwai Kibaki, volto a garantire l’ istruzione scolastica gratuita a tutti, è stato forgiato per rispondere ai bisogni di una realtà quasi del tutto priva di infrastrutture, in cui l’ offerta formativa pubblica è carente ed altissimo è il numero di malattie e di morti dovute alle scarse condizioni igieniche. L’ edificio scolastico, provvisto di laboratori di sartoria, lavorazione dei metalli e saldatura, cottura e lavorazione dell’argilla, è stato infatti concepito, dopo l’ incontro con KNUT, un’ associazione d’ insegnanti del Kenia che ha fornito supporto locale, allo scopo di far acquisire ai giovani del villaggio abilità e competenze specifiche, che possano consentire loro di avviarsi a un’ attività professionale e dunque ritagliarsi un ruolo nella comunità d’ appartenenza. Obiettivo precipuo del progetto, quello di veicolare un’ attenzione positiva verso la malattia mentale, contrastando i pregiudizi che ancora la accompagnano e favorendo l’ inclusione sociale dei malati. La rete di partner italiani, capeggiata dal Coordinamento Nazionale “Le Parole Ritrovate” in sinergia con Itake, è stata sostenuta da numerose realtà associazionistiche spalmate su gran parte del territorio nazionale. Tra queste, anche DIAPSI Vercelli, un’ associazione di volontariato per la promozione della Salute Mentale composta da volontari, familiari e persone con storie di diagnosi psichiatriche. Angelo Crea è un collaboratore di DIAPSI Vercelli: è un giovane e valente psicologo, che sta seguendo il terzo anno della scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva. Assieme alla Presidente Lorena Chinaglia e a Marco Marinone, un’ utente dell’ associazione, ha fatto parte di una delle delegazioni inviate a Muyeye a seguire, in itinere, lo svolgimento dei lavori di costruzione della scuola, e a intrecciare contatti con la comunità locale. Il suo cognome “svela” immediatamente le origini calabresi: il padre è originario di Campo Calabro, la mamma è nata a Vercelli da genitori della provincia di Catanzaro. Angelo, luminosi occhi verdi e viso sorridente, sente forte il legame con le radici e, appena può, torna nella “sua” Calabria.


Angelo, che ruolo ha avuto DIAPSI nel progetto?


“La DIAPSI, presieduta da Lorena Chinaglia, si dedica da molti anni al tema della salute mentale con vari progetti ed attività per gli utenti del servizio psichiatrico ed i loro familiari. In particolare promuove una serie di corsi e laboratori presso la propria sede, interventi domiciliari e nelle strutture sanitarie, gruppi di auto-mutuo-aiuto e percorsi di avvicinamento al lavoro. Il messaggio che vogliamo mandare è molto semplice: la malattia mentale non è solo o soprattutto dolore, sconfitta, pericolosità, incomprensibilità e solitudine. La follia può anche essere trasformata in occasione di incontro, di scambio di esperienze, di condivisione di punti di vista alternativi, fino addirittura a poter diventare una risorsa per la comunità, come in questo caso, dove si è potuti essere risorsa per un intero villaggio africano. Il progetto ha visto la partecipazione di quasi tutte le regioni italiane, riunite dal coordinamento nazionale de Le Parole Ritrovate di Trento in collaborazione con l’ONG Itake di Frosinone. Le Parole Ritrovate, a cui la DIAPSI aderisce, è un movimento di utenti, operatori, familiari e cittadini della salute mentale, che porta avanti l’idea del fareassieme come metodo di lavoro e di impegno sociale; nascono nel 2000 e da allora organizzano eventi in tutta Italia per promuovere questo approccio alla malattia mentale. Non sono nuovi ad iniziative un po’ “folli”. Ad esempio, nel 2006, un equipaggio del Servizio di Salute Mentale di Trento ha attraversato l’Oceano Atlantico in barca a vela e l’anno dopo più di 200 persone legate al mondo della psichiatria hanno raggiunto Pechino tramite un indimenticabile viaggio in treno. Nel 2009, si è scelto di impegnarsi attivamente in un progetto di cooperazione internazionale, al motto di “un ramo di follia fa più bello l’albero della vita”. Così anche a Vercelli tutti i componenti dell’associazione DIAPSI hanno lavorato per mesi all’organizzazione di eventi per raccogliere i fondi necessari alla costruzione della scuola (120.000 in tutto gli euro necessari per il progetto). L’attività più importante, che ha permesso di contribuire a buona parte del progetto, è stata la messa in scena dello spettacolo “Il Re Seduto” al Teatro Civico (il più importante teatro cittadino), ad opera dei partecipanti al laboratorio teatrale e non solo.”

Tu hai fatto parte di una delegazione inviata in Kenia ad assistere ai lavori.

“Sì, ad una piccola delegazione dell’associazione è stato affidato il compito di vivere le emozioni delle terre africane e riportarle a tutti coloro che in questo progetto hanno creduto. Con me, c’erano Lorena Chinaglia, presidente di DIAPSI Vercelli, e Marco Marinone, un utente dell'associazione, alla sua prima esperienza di viaggio senza la famiglia e alla prima esperienza all’estero. Puoi immaginare quanto sia stata d’impatto la realtà africana per lui. I primi giorni era un po’ disorientato, mangiava solo cibi conosciuti, pensava spesso a casa; ma, dopo la prima settimana, ha iniziato a mangiare anche le pietanze “nuove”, e chiedeva di prolungare il viaggio. Più volte, ha osservato che certe cose, seppur viste in televisione, non sembrano davvero reali, mentre il contatto con quella realtà ne rendeva tangibile tutta la drammatica concretezza”.

Qual è stato l’ impatto con la realtà locale e la comunità di Muyeye?

“Il confronto con la realtà del villaggio è stato molto forte. Si viene subito accolti da un fiume di bambini che ti chiedono il nome, si presentano, avanzano richieste di ogni tipo. Qualcuno chiede caramelle, altri chiedono piccole somme di denaro per comprare della farina per sé ed i propri familiari. Accontentare tutti è impossibile, si viene assaliti da un forte senso di impotenza. Le emozioni sono ambivalenti: con una piccola somma di denaro si può cambiare la vita di una persona per qualche mese, ma gli altri? è giusto fare l’elemosina? è rispettoso della loro dignità? aiuta la loro crescita autonoma? i primi giorni si resta come paralizzati. Nel villaggio la vita scorre lenta e tranquilla, gli abitanti vivono in capanne di fango con tetti di foglie di banano, senza acqua corrente ed energia elettrica, il lavoro più frequente è lo spaccapietre (gli uomini scavano in profondità la terra rossa del villaggio e ne estraggono enormi massi che le donne frantumano pazientemente con un martello per ricavarne materiale da edilizia), il salario medio è di circa 50 centesimi di euro al giorno, giusto il prezzo di un chilo di farina. Malgrado le difficoltà, però, la gente ha sempre un sorriso pronto, nei loro occhi si legge voglia di vivere, l’espressione più usata è “hakuna matata”, che in lingua swahili significa non ci sono problemi. Difficile non sentirsi intimamente colpiti da queste situazioni. Abbiamo deciso di entrare in punta di piedi, senza giudicare, senza portare soluzioni preconfezionate, senza metterci su piani diversi, per esperienza personale o perché, per lavoro, un po’ ci siamo abituati: è così che si deve fare anche in psichiatria se si vuole davvero stare vicino a chi soffre.”



Avete vissuto anche un momento di vicinanza e convivialità con una famiglia.

“Sì, siamo stati invitati a pranzo dalla famiglia di Furaha, un bambino che in quei giorni si era particolarmente legato a noi. E’ stato un momento indimenticabile quello in cui abbiamo mangiato per terra, stretti uno contro l’altro per sfruttare la piccola zona d’ombra formata dalla parete di fango della capanna, noi tre, Furaha, i suoi sei fratelli, la mamma, il papà e la nonna. Tutti vicini a mangiare polenta bianca, fagioli e patate, un pasto semplice, consumato con le mani, che ci ha trasmesso tutta la dignità e la forza di una famiglia che, tra un canto e l’altro fatto in nostro onore, ci ha confessato con emozione che nessun uomo bianco aveva mai pranzato a casa loro. Alla fine del pasto, il padre ci ha mostrato una lettera inviata dalla scuola di Mary, la figlia maggiore, che frequentava il terzo anno della secondary school (il nostro liceo). La missiva li informava che Mary non avrebbe più potuto presentarsi a scuola perché la famiglia non aveva saldato l’ultima rata della retta (da quando il padre si era ammalato, non riusciva più ad estrarre pietre e lavorare). Inizialmente, siamo rimasti in silenzio, sentendoci impotenti. Ma il pensiero di quella ragazza non ci abbandonava. Con poco più di 400 euro all’anno, avremmo avuto la possibilità di offrire a lei e, forse, ai suoi sei fratelli minori un futuro diverso. Un’ infermiera lì guadagna circa 200 euro al mese, 20 volte quello che guadagna la mamma di Furaha spaccando sassi. Abbiamo avanzato una proposta: “i soldi te li prestiamo, tu ti impegni a studiare e diventare un’infermiera ed appena potrai ce li restituirai, se lo farai ci permetterai di aiutare altre persone nella tua stessa situazione”. L’idea è molto semplice, in altre parti del mondo è chiamata microcredito, ed è gestita da istituzioni ad hoc. Quando lo abbiamo proposto nel villaggio, tutta la famiglia ha sgranato gli occhi, poi ha accettato sorridendo. Al momento dei saluti, il giorno prima di tornare in Italia, siamo tornati nella loro capanna. Abbiamo percepito di aver intrecciato un bel legame con quella famiglia, il termine “prestito” ci ha tolto dall’imbarazzo dei ricchi benefattori e ha reso loro tutta la dignità che avevamo sentito il primo giorno. Abbiamo lasciato a Furaha un frisbee con cui abbiamo giocato nei giorni scorsi, sua madre si è sfilata di dosso un pareo colorato per donarlo a Lorena.”

Angelo, cosa rimane dopo un’ esperienza così emotivamente coinvolgente?

“Le domande restano tante, la sensazione di aver compreso solo una piccolissima parte della complessità di un’altra cultura così diversa, così lontana dalla nostra è molto forte. Ho spesso ripensato ai volti di tutti i bambini, gli uomini e le donne incontrate nel villaggio e, al ritorno, insieme con Lorena e Marco, ho voluto condividere con gli altri il senso di questo viaggio toccante e denso di emozioni. Mi è rimasto un unico rammarico. Dinanzi alla scuola, a Muyeye, abbiamo piantato un cartellone con la cartina dell’ Italia. Con i ragazzi, abbiamo colorato le tredici Regioni in cui sono presenti gruppi aderenti al Coordinamento nazionale “Le parole ritrovate”. Le altre sono rimaste bianche. Tra queste, c’era anche la Calabria in cui, tuttora, non esiste alcuna sezione locale. Ecco, l’auspicio che esprimo è che al più presto anche la mia Regione d’origine possa colorarsi della sensibilità e dell’ impegno espressi da questo sistema virtuoso, i cui benefici sono già visibili in tanta parte del nostro territorio nazionale.”
Martedì 03 Agosto 2010 09:28
di Angela Chirico


Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,
il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola
come una trappola da sacrificio,
è quindi venuto il momento di cantare
una esequie al passato.
Alda Merini


Fonte: Strilli.it



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