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Verso la sconfitta di al Shabaab
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Verso la sconfitta di al Shabaab
Verso la sconfitta di al Shabaab
Con un modesto ritardo sulla tabella di marcia annunciata, le truppe del Kenya stanno per prendere Kisimayo.
Nei giorni scorsi le truppe del Kenya, del governo somalo e della milizia Raskamboni hanno liberato Merca e Miido, oggi è arrivata la notizia che la marina del Kenya ha sparato dal mare su Kisimayo, importante porto meridionale somalo e ultima ridotta degli al Shabaab, la loro base principale e unico porto dal quale potessero ricavare introiti e ricevere rifornimenti.
Presi a tenaglia da terra e dal mare, bisognerà vedere che tipo di resistenza saranno in grado d’opporre. Pur in possesso di artiglieria pesante i talebani somali scontano l’assenza di una copertura aerea che invece i kenyani possono schierare con efficacia, potendo contare su diversi elicotteri d’attacco e sull’assistenza dell’alleato americano, che monitora l’area dal cielo e sempre dal cielo può colpire con i droni quando se ne presenti l’occasione.
Gli al Shabaab hanno cercato di darsi forza trascinando alcuni cadaveri di nemici per le vie della città ormai prossima alla battaglia, ma non hanno ottenuto alcuna mobilitazione popolare o corsa alle armi, semmai subito è spuntata una colonna di civili in fuga dalla città e dai combattimenti ormai in corso.
Con i soldati inviati da Nairobi le forze sotto le insegne dell’Unione Africana nel paese sono arrivate a 18.000 soldati, anche se solo quelle del Kenya sono impiegate attivamente nella caccia agli shabaab nel meridione. Nel paese operano comunque anche truppe etiopi nell’Ovest del paese e un gran numero di mercenari e di piccoli gruppi di militari o esponenti dell’intelligence di diversi paesi, una rappresentativa multicolore che per ora sembra aver riconquistato la tranquillità a Mogadiscio e spinto gli shabaab sull’orlo della sconfitta.
Non mancano buone notizie dalla politica, anche se visti i precedenti vanno prese con le molle. Circa 800 dignitari somali, pomposamente riuniti nell’Assemblea Nazionale Costituente, hanno eletto un parlamento più di 228 elementi, i quali dovranno eleggere un presidente, che porterà il paese al voto tra 4 anni. Non è la prima volta che succede, poi si sono sempre persi per strada per un motivo o per l’altro, non ultima la difficoltà di trovare un candidato decente tra i tre principali concorrenti ed evitare che i 4 anni diventino un regno personale al termine del quale la discussione finirà a fucilate invece che al voto. Ad evitare il pericolo dovrebbe servire la costituzione somala votata per l’occasione a grande maggioranza, anche se molti avevano robuste obiezioni, ma c’era poco tempo.
Il 10 settembre i 228 voteranno per il presidente e da lì dovrebbero cominciare a correre i previsti 4 anni, trascorsi i quali nel 2016 la Somalia potrebbe avere il primo parlamento e l primo governo unitario del paese dal 1991. Si tratta per ora di aspettative, perché anche se gli shabaab resteranno un’ombra estremista e probabilmente saranno ancora in grado di compiere attacchi devastanti, ma non più di minacciare il governo, il problema torna ad essere quello della tradizionale incapacità delle fazioni somale di scendere a patti per l’interesse comune, mai anteposto a quelli individuali o clanici, al punto che anche la trattativa per la costituzione è finita bruscamente contro la deadline imposta dalla “comunità internazionale”, altrimenti avrebbe potuto durare per mesi e mesi ancora.
Il ritorno di una parvenza di vita normale a Mogadiscio, la stessa partecipazione di alcuni atleti alle olimpiadi, l’impulso all’economia locale dato dalle attività delle imprese mercenarie, che con la loro nota fantasia hanno creato persino delle armerie off-shore, dove possono vendere e scambiare armi al di fuori delle acque territoriali e quindi della giurisdizione di paesi ficcanaso, un esempio che non tarderà a diffondersi in altre parti del mondo, almeno fino a quando qualche governo non deciderà che danno fastidio.
Un fiorire d’interessi non sempre trasparenti, ma sempre armati fino ai denti, così come armati fino ai denti restano i diversi clan somali e i numerosi signori della guerra, una presenza ingombrante che durante il recente processo “elettorale” è rimasta una questione inevasa per mancanza di sintesi tra chi ne voleva l’esclusione esplicita dal futuro del paese e chi no. Per ora comunque ONU, UA ed USA, i tre maggiori attori in campo, possono dire che il tentativo in corso sta andando meglio dei precedenti, impostati su interventi massicci quanto unilaterali e poco condivisi.
L’impiego di truppe africane sul terreno, pur sostenute economicamente e logisticamente dagli USA e dalla UE, si è rivelato più efficace dell’intervento di potenze militari ben più robuste intervenute in passato in Somalia, da quella americana a quella etiope. I contingenti multinazionali africani sono accettati con maggior favore e non alimentano esplosioni nazionaliste, per di più disinnescano la retorica contro la colonizzazione da parte del primo mondo, anche se non si può dire che l’UA agisca in piena autonomia o che le truppe sul campo siano insensibili ai voleri di Washington.
L’altro aspetto rilevante è che contrariamente a una tradizione di disimpegno, le truppe dell’UA sono passate dal peace keeping passivo a guardia delle aree nevralgiche della capitale, a truppe attivamente impegnate nel combattere la diffusione della guerriglia wahabita d’importazione, che con la sua pretesa di fare della Somalia un emirato era chiaramente inconciliabile con l’idea di una Somalia più o meno democratica e, soprattutto, con le idee dei paesi confinanti e con quelle di Washington, che in Somalia combatte da anni un pezzo della war on terror. E quindi con l’idea di una Somalia pacificata o pacificabile, posto che per gli shabaab non c’era spazio per altro che la dittatura dei fedeli d’Allah e il resto del mondo, e dei somali, non ne voleva sapere.
Privare del controllo del territorio gli shabaab e sconfiggerli militarmente era indubbiamente un passo necessario, ma ora viene il tempo della vera sfida che attende la Somalia. Quella di alzarsi sulle gambe e di trovare una soluzione condivisa che consenta ai somali di recuperare la sovranità sul loro paese, un governo unico dove ora ce ne sono almeno tre e la possibilità per i suoi cittadini di tornare a vivere nelle case abbandonando i campi per profughi dove ormai languono da anni. Tutte cose che saranno possibili solo se i somali smetteranno di spararsi e riusciranno ad anteporre l’interesse comune a quello particolare. Una sfida che nessuno può dire se e quando sarà vinta.
Fonte:Giornalettismo
Con un modesto ritardo sulla tabella di marcia annunciata, le truppe del Kenya stanno per prendere Kisimayo.
Nei giorni scorsi le truppe del Kenya, del governo somalo e della milizia Raskamboni hanno liberato Merca e Miido, oggi è arrivata la notizia che la marina del Kenya ha sparato dal mare su Kisimayo, importante porto meridionale somalo e ultima ridotta degli al Shabaab, la loro base principale e unico porto dal quale potessero ricavare introiti e ricevere rifornimenti.
Presi a tenaglia da terra e dal mare, bisognerà vedere che tipo di resistenza saranno in grado d’opporre. Pur in possesso di artiglieria pesante i talebani somali scontano l’assenza di una copertura aerea che invece i kenyani possono schierare con efficacia, potendo contare su diversi elicotteri d’attacco e sull’assistenza dell’alleato americano, che monitora l’area dal cielo e sempre dal cielo può colpire con i droni quando se ne presenti l’occasione.
Gli al Shabaab hanno cercato di darsi forza trascinando alcuni cadaveri di nemici per le vie della città ormai prossima alla battaglia, ma non hanno ottenuto alcuna mobilitazione popolare o corsa alle armi, semmai subito è spuntata una colonna di civili in fuga dalla città e dai combattimenti ormai in corso.
Con i soldati inviati da Nairobi le forze sotto le insegne dell’Unione Africana nel paese sono arrivate a 18.000 soldati, anche se solo quelle del Kenya sono impiegate attivamente nella caccia agli shabaab nel meridione. Nel paese operano comunque anche truppe etiopi nell’Ovest del paese e un gran numero di mercenari e di piccoli gruppi di militari o esponenti dell’intelligence di diversi paesi, una rappresentativa multicolore che per ora sembra aver riconquistato la tranquillità a Mogadiscio e spinto gli shabaab sull’orlo della sconfitta.
Non mancano buone notizie dalla politica, anche se visti i precedenti vanno prese con le molle. Circa 800 dignitari somali, pomposamente riuniti nell’Assemblea Nazionale Costituente, hanno eletto un parlamento più di 228 elementi, i quali dovranno eleggere un presidente, che porterà il paese al voto tra 4 anni. Non è la prima volta che succede, poi si sono sempre persi per strada per un motivo o per l’altro, non ultima la difficoltà di trovare un candidato decente tra i tre principali concorrenti ed evitare che i 4 anni diventino un regno personale al termine del quale la discussione finirà a fucilate invece che al voto. Ad evitare il pericolo dovrebbe servire la costituzione somala votata per l’occasione a grande maggioranza, anche se molti avevano robuste obiezioni, ma c’era poco tempo.
Il 10 settembre i 228 voteranno per il presidente e da lì dovrebbero cominciare a correre i previsti 4 anni, trascorsi i quali nel 2016 la Somalia potrebbe avere il primo parlamento e l primo governo unitario del paese dal 1991. Si tratta per ora di aspettative, perché anche se gli shabaab resteranno un’ombra estremista e probabilmente saranno ancora in grado di compiere attacchi devastanti, ma non più di minacciare il governo, il problema torna ad essere quello della tradizionale incapacità delle fazioni somale di scendere a patti per l’interesse comune, mai anteposto a quelli individuali o clanici, al punto che anche la trattativa per la costituzione è finita bruscamente contro la deadline imposta dalla “comunità internazionale”, altrimenti avrebbe potuto durare per mesi e mesi ancora.
Il ritorno di una parvenza di vita normale a Mogadiscio, la stessa partecipazione di alcuni atleti alle olimpiadi, l’impulso all’economia locale dato dalle attività delle imprese mercenarie, che con la loro nota fantasia hanno creato persino delle armerie off-shore, dove possono vendere e scambiare armi al di fuori delle acque territoriali e quindi della giurisdizione di paesi ficcanaso, un esempio che non tarderà a diffondersi in altre parti del mondo, almeno fino a quando qualche governo non deciderà che danno fastidio.
Un fiorire d’interessi non sempre trasparenti, ma sempre armati fino ai denti, così come armati fino ai denti restano i diversi clan somali e i numerosi signori della guerra, una presenza ingombrante che durante il recente processo “elettorale” è rimasta una questione inevasa per mancanza di sintesi tra chi ne voleva l’esclusione esplicita dal futuro del paese e chi no. Per ora comunque ONU, UA ed USA, i tre maggiori attori in campo, possono dire che il tentativo in corso sta andando meglio dei precedenti, impostati su interventi massicci quanto unilaterali e poco condivisi.
L’impiego di truppe africane sul terreno, pur sostenute economicamente e logisticamente dagli USA e dalla UE, si è rivelato più efficace dell’intervento di potenze militari ben più robuste intervenute in passato in Somalia, da quella americana a quella etiope. I contingenti multinazionali africani sono accettati con maggior favore e non alimentano esplosioni nazionaliste, per di più disinnescano la retorica contro la colonizzazione da parte del primo mondo, anche se non si può dire che l’UA agisca in piena autonomia o che le truppe sul campo siano insensibili ai voleri di Washington.
L’altro aspetto rilevante è che contrariamente a una tradizione di disimpegno, le truppe dell’UA sono passate dal peace keeping passivo a guardia delle aree nevralgiche della capitale, a truppe attivamente impegnate nel combattere la diffusione della guerriglia wahabita d’importazione, che con la sua pretesa di fare della Somalia un emirato era chiaramente inconciliabile con l’idea di una Somalia più o meno democratica e, soprattutto, con le idee dei paesi confinanti e con quelle di Washington, che in Somalia combatte da anni un pezzo della war on terror. E quindi con l’idea di una Somalia pacificata o pacificabile, posto che per gli shabaab non c’era spazio per altro che la dittatura dei fedeli d’Allah e il resto del mondo, e dei somali, non ne voleva sapere.
Privare del controllo del territorio gli shabaab e sconfiggerli militarmente era indubbiamente un passo necessario, ma ora viene il tempo della vera sfida che attende la Somalia. Quella di alzarsi sulle gambe e di trovare una soluzione condivisa che consenta ai somali di recuperare la sovranità sul loro paese, un governo unico dove ora ce ne sono almeno tre e la possibilità per i suoi cittadini di tornare a vivere nelle case abbandonando i campi per profughi dove ormai languono da anni. Tutte cose che saranno possibili solo se i somali smetteranno di spararsi e riusciranno ad anteporre l’interesse comune a quello particolare. Una sfida che nessuno può dire se e quando sarà vinta.
Fonte:Giornalettismo
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