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Nilo, sale la tensione.
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Nilo, sale la tensione.
Nilo, sale la tensione.
Le acque del fiume sono calme solo in superficie, venti di tempesta soffiano dalle sorgenti
Erodoto chiamava l’Egitto “Dono del Nilo”, ma sono molti i doni dimenticati risalendo lungo il suo corso fino agli altipiani dell’Etiopia e al lago Tana, dove nasce il Nilo azzurro, oppure al Lago Vittoria, in Uganda, dove inizia la corsa del Nilo bianco: tanti quanti sono i Paesi che attraversa.
Il 14 maggio i ministri di Uganda, Etiopia, Rwanda e Tanzania si sono riuniti a Entebbe, in Uganda, per firmare un Accordo strutturale di cooperazione sulle acque del Nilo, il Cooperative Framework Agreement (CFA), che di fatto servirà a istituire una Commissione permanente di gestione e sfruttamento futuro delle acque del grande fiume da parte di tutti i Paesi del suo bacino. Il Kenya ha firmato la settimana successiva. Ma Egitto e Sudan hanno disertato l'incontro.
Il bacino idrografico del Nilo, lungo 6695 chilometri, comprende un territorio di 3 milioni di chilometri quadrati, con 300 milioni di persone direttamente coinvolte dal suo sistema idrico interconnesso, che, per la grossa crescita demografica che sta investendo la regione, raddoppieranno nei prossimi 25 anni. Oggi sono 160 milioni quelli la cui vita dipende strettamente dal fiume e 9 i Paesi interessati: Egitto, Sudan, Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Kenya, Rwanda, Tanzania e Uganda.
La questione è semplice, bastano poche parole per dirla: si tratta di come usare e distribuire equamente le potenzialità delle risorse idriche che il Nilo mette a disposizione, tra le quali ad esempio l’energia idroelettrica o la capacità di irrigazione per lo sviluppo di una moderna agricoltura, tutte enormi occasioni di crescita economica. Con questo obiettivo viene avviato il CFA, come protocollo d’intesa, che vincola i Paesi aderenti a formare la futura Commissione di gestione secondo determinati criteri.
Semplice a dirla, ma nei fatti la questione ha una natura molto più complessa e radici antiche, che affondano le loro origini nel terreno sabbioso degli accordi coloniali, stipulati dalla Gran Bretagna con l’Egitto nel 1929. E intanto la popolazione dell’intero bacino resta poverissima.
Per ovviare a questa situazione le negoziazioni hanno inizio nel 1997, ma solo nel 1999 nasce la Nile Basin Initative (NBI), che deve spianare la strada per una Commissione di gestione, ma dieci anni di negoziati, che hanno visto manovre politiche, intrighi, diffidenza, sospetti e abbandoni, non hanno portato a niente. Inoltre la NBI, che serviva anche a dare un riconoscimento legale a tutti i Paesi del bacino nello sfruttamento delle acque, sia su scala regionale che internazionale, finirà il suo mandato nel 2012, occorre quindi elaborare una nuova cornice di controllo. In questi dieci anni la NBI si è rivelata legalmente fragile: l’Egitto ha continuato ad esercitare il proprio diritto di veto per le opere sul Nilo. Solo nell’ultimo anno due incontri, a Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo nel maggio 2009 e ad Alessandria d’Egitto nel luglio dello stesso anno, si sono conclusi con un nulla di fatto per la posizione inflessibile espressa da Egitto e Sudan, con il rifiuto di una nuova ripartizione delle quote storiche di acqua.
In un meeting straordinario, tenutosi a Sharm El Sheikh nell’aprile di quest’anno, l’Egitto, che detiene l’attuale presidenza a rotazione del Consiglio dei ministri del Nilo, propone di istituire la Commissione prima di concludere i negoziati sull’accordo, in altre parole prima di chiudere il protocollo d’intesa. La tattica dell’Egitto di attaccare il carro davanti ai buoi, per cui molti accusano il ministro delle Risorse idriche Nasr Eddin Allam di mancanza di imparzalità in qualità di presidente di turno, sembra evidentemente andare nella direzione di uno svuotamento della Commissione, crearla al di fuori degli accordi vorrebbe dire avere un’istituzione vuota, meno forte della NBI. Nel vertice di Sharm fonti riportano di tentativi, portati nottetempo dal ministro egiziano, di inserire nel testo degli accordi clausole capestro per gli altri Paesi, eroicamente sventati dal ministro dell’Acqua della Tanzania, il prof. Mark Mwandosya.
L’atteggiamento egiziano viene definito anacronistico dal Primo ministro etiope appena rieletto, Meles Zenawi, il quale sostiene che è arrivato il momento di cercare una soluzione in cui “tutti risultino vincitori”.
È questo il contesto in cui il 14 maggio viene presa la decisione di firmare il CFA a Entebbe da parte dei Paesi che si trovano a monte del bacino: il protocollo resterà aperto per la firma per la durata di un anno, fino al 13 maggio 2011. Oltre ai quattro Paesi che hanno firmato subito, e al Kenya che si è aggiunto a distanza di pochi giorni, nel corso dell’anno sono attese le firme della Repubblica Democratica del Congo e del Burundi. Non sono invece vicine le firme di Egitto e Sudan, e il rifiuto dell’Egitto fa salire la tensione, accompagnandosi a proteste da parte di quest’ultimo, minacce di azioni diplomatiche e di fermare i finanziamenti ai partner strategici in Africa orientale.
C’è chi dice che tutta questa storia, l’escalation della tensione, sia in realtà una boutade che serve a mascherare gli interessi economici e commerciali delle potenze del nord, Egitto e Sudan, nell’investire nei futuri progetti che si realizzeranno a monte, e minacciare serve ad alzare il prezzo e a procurarsi una fetta più grossa negli investimenti, un posto in prima fila.
Sta di fatto che Nasr Eddin Allam, il ministro egiziano, ha dichiarato che verranno prese tutte le misure atte a mantenere lo status quo dei propri diritti e che “tutte le iniziative prese unilateralmente dai Paesi a monte del bacino non vincolano in alcun modo quelli a valle, e non hanno alcuna legittimità”. Altre fonti non escludono la possibilità di un intervento militare per mantenere inalterato l’assetto attuale, ma è improbabile che l’Egitto in questo momento, mentre ha già non pochi problemi sul fronte interno, possa permettersi di sostenere un conflitto armato.
Uno scenario futuro auspicabile, e forse possibile, vedrebbe Egitto e nord del Sudan focalizzati sulla gestione della domanda, mentre i Paesi a monte, tra i quali l’Etiopia di Zenawi, sulla gestione dell’approvvigionamento, impegnandosi comunque a minimizzare l’impatto negativo delle loro opere di sfruttamento sui Paesi a valle.
Una tipica soluzione negoziale, appunto.
Fonte: PeaceReporter
dolcemagic- Sostenitore
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