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RACCONTI DI CLAUDIA PELI - 1 - "GRATITUDINE"
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RACCONTI DI CLAUDIA PELI - 1 - "GRATITUDINE"
RACCONTI DI CLAUDIA PELI - 1 - "GRATITUDINE"
Ho uno shamba boy che si chiama Mungo, è il quinto di undici fratelli...almeno così sembra: il numero esatto non lo sa neanche lui … Porta le ciabatte di gomma di colore diverso, probabilmente trovate in spiaggia dopo l’alta marea, e al polso ha un orologio di topolino sempre fermo sulle dieci e un quarto, e gli piace tanto che non se lo leva mai. Se gli chiedo che ore sono, lui allunga il collo e guarda il cielo, studia un po’ il sole e poi mi risponde: ci azzecca quasi sempre. Mungo vive lontano, dopo l’aeroporto, dentro il bush. E tutte le mattine viene a lavorare nel mio giardino in sella ad una bicicletta sgangherata che si chiama Ursula . A parte il fatto che perde spesso la catena nelle buche e lui ci cade dentro, Ursula è una bicicletta minuscola e non capisco come Mungo che è grosso riesca a starci in equilibrio e a pedalare per tutti quei chilometri.
Nonostante le magagne, la micro Ursula è il suo unico mezzo di locomozione, e quindi se la tiene stretta e ogni tanto le da un po’ d’olio. E’ una fortuna avere una bici, sai quanti scellini risparmiati in tuk - tuk e boda -boda? Così il buon Mungo, tra una pedalata e una caduta, arriva più o meno puntuale tutte le mattine al mio cancello e mi dice col sorriso: “Jambo mama!”
Lavora sodo e non si lamenta mai. Non mi chiede prestiti, e non si da mai per malato. Taglia l’erba, annaffia, pota le siepi, raccoglie le foglie morte. Va su e giù per il giardino spingendo la carriola col rastrello in spalla e il panga sotto il braccio. Mica come quell’altro, il suo collega, che se ne sta imboscato tutto il giorno a fare finta di pulire la piscina o a chiacchierare con la cuoca del vicino …
Bravo Mungo, ti voglio premiare. E così ho deciso di regalargli la mia vecchia mountain bike, perché da quando ho la macchina non la uso più e se ne sta lì nel sottoscala a fare le ragnatele.
Quando gliela ho data non ci poteva credere, gli sono venuti gli occhi enormi e lucidi e mi ripeteva: "Asante sana mama, grazie!"
Era così emozionato che mi sono un po’ commossa anch‘io. Ecco, un piccolo bel gesto ha reso felice il mio shamba boy, che da domani verrà al lavoro pedalando bello comodo sulla nuova bicicletta, mi son detta contenta. Mi sbagliavo … la mattina dopo l’ho visto arrivare al cancello arrancando faticosamente per l’ennesima volta in sella ad Ursula la sgarruppata. Che grande delusione … ho pensato che forse gliela avessero rubata fuori dalla capanna durante la notte. Poverino.
“Jambo mama!” Mi ha detto sorridendo come se niente fosse.
“Jambo Mungo. Ma dov’è la tua nuova bici?”
“L’ho venduta. Pesa mingi sana, tanti soldi!” Mi dice orgoglioso.
“Che cooosa hai fattoooo!?” Gli ringhio addosso.
Dalla sua espressione intimorita capisco che mi vede le fiamme di rabbia negli occhi.
“Iko matata?” Mi chiede perplesso.
“Certo che c’è problema! Mungo non si vendono i regali!”
“Perché mama?” Mi chiede ingenuo come un bimbo.
“Perché dovresti mostrare un po’ di gratitudine per il dono che ti ho fatto.” Provo a spiegargli. Ma Mungo si gratta la testa pensieroso.
“Gratti … grattitt …nini?” Mi chiede. Ecco, lo sapevo, non conosce nemmeno il significato della parola. Alla fine forse ho sbagliato io, mi dico. Che cosa mi aspettavo: che buttasse via Ursula? In Africa non si butta via niente. Mi auguro almeno che con i soldi ci abbia comprato delle cose utili per la sua famiglia. Così mi faccio passare la frustrazione e gli dico:
“Dai, vai a tagliare l’erba. Hakuna matata.” E non ci penso più.
Quando sono scesa in giardino col cane la sera ho notato che la mia macchina era lustra brillante, miracolo! Poi ho visto lì accanto Mungo, accucciato sul secchio dell’acqua che strizzava una grossa spugna.
“Sei stato tu?” Lui ha fatto sì con la testa e poi in perfetto italiano ha detto:
“Gratitudine!” E mi ha fatto il sorriso più bello del mondo. Ecco, io mi sono commossa di nuovo. “Asante Mungo, mzuri sana, molto bene.”
Da quel giorno il mio shamba boy mi lava la macchina ogni lunedì senza bisogno di ricordarglielo, la piccola Ursula sta ancora parcheggiata sotto il frangipani, e l’erba del mio giardino è molto più verde di quella del vicino.
FONTE:Malindikenya
Ho uno shamba boy che si chiama Mungo, è il quinto di undici fratelli...almeno così sembra: il numero esatto non lo sa neanche lui … Porta le ciabatte di gomma di colore diverso, probabilmente trovate in spiaggia dopo l’alta marea, e al polso ha un orologio di topolino sempre fermo sulle dieci e un quarto, e gli piace tanto che non se lo leva mai. Se gli chiedo che ore sono, lui allunga il collo e guarda il cielo, studia un po’ il sole e poi mi risponde: ci azzecca quasi sempre. Mungo vive lontano, dopo l’aeroporto, dentro il bush. E tutte le mattine viene a lavorare nel mio giardino in sella ad una bicicletta sgangherata che si chiama Ursula . A parte il fatto che perde spesso la catena nelle buche e lui ci cade dentro, Ursula è una bicicletta minuscola e non capisco come Mungo che è grosso riesca a starci in equilibrio e a pedalare per tutti quei chilometri.
Nonostante le magagne, la micro Ursula è il suo unico mezzo di locomozione, e quindi se la tiene stretta e ogni tanto le da un po’ d’olio. E’ una fortuna avere una bici, sai quanti scellini risparmiati in tuk - tuk e boda -boda? Così il buon Mungo, tra una pedalata e una caduta, arriva più o meno puntuale tutte le mattine al mio cancello e mi dice col sorriso: “Jambo mama!”
Lavora sodo e non si lamenta mai. Non mi chiede prestiti, e non si da mai per malato. Taglia l’erba, annaffia, pota le siepi, raccoglie le foglie morte. Va su e giù per il giardino spingendo la carriola col rastrello in spalla e il panga sotto il braccio. Mica come quell’altro, il suo collega, che se ne sta imboscato tutto il giorno a fare finta di pulire la piscina o a chiacchierare con la cuoca del vicino …
Bravo Mungo, ti voglio premiare. E così ho deciso di regalargli la mia vecchia mountain bike, perché da quando ho la macchina non la uso più e se ne sta lì nel sottoscala a fare le ragnatele.
Quando gliela ho data non ci poteva credere, gli sono venuti gli occhi enormi e lucidi e mi ripeteva: "Asante sana mama, grazie!"
Era così emozionato che mi sono un po’ commossa anch‘io. Ecco, un piccolo bel gesto ha reso felice il mio shamba boy, che da domani verrà al lavoro pedalando bello comodo sulla nuova bicicletta, mi son detta contenta. Mi sbagliavo … la mattina dopo l’ho visto arrivare al cancello arrancando faticosamente per l’ennesima volta in sella ad Ursula la sgarruppata. Che grande delusione … ho pensato che forse gliela avessero rubata fuori dalla capanna durante la notte. Poverino.
“Jambo mama!” Mi ha detto sorridendo come se niente fosse.
“Jambo Mungo. Ma dov’è la tua nuova bici?”
“L’ho venduta. Pesa mingi sana, tanti soldi!” Mi dice orgoglioso.
“Che cooosa hai fattoooo!?” Gli ringhio addosso.
Dalla sua espressione intimorita capisco che mi vede le fiamme di rabbia negli occhi.
“Iko matata?” Mi chiede perplesso.
“Certo che c’è problema! Mungo non si vendono i regali!”
“Perché mama?” Mi chiede ingenuo come un bimbo.
“Perché dovresti mostrare un po’ di gratitudine per il dono che ti ho fatto.” Provo a spiegargli. Ma Mungo si gratta la testa pensieroso.
“Gratti … grattitt …nini?” Mi chiede. Ecco, lo sapevo, non conosce nemmeno il significato della parola. Alla fine forse ho sbagliato io, mi dico. Che cosa mi aspettavo: che buttasse via Ursula? In Africa non si butta via niente. Mi auguro almeno che con i soldi ci abbia comprato delle cose utili per la sua famiglia. Così mi faccio passare la frustrazione e gli dico:
“Dai, vai a tagliare l’erba. Hakuna matata.” E non ci penso più.
Quando sono scesa in giardino col cane la sera ho notato che la mia macchina era lustra brillante, miracolo! Poi ho visto lì accanto Mungo, accucciato sul secchio dell’acqua che strizzava una grossa spugna.
“Sei stato tu?” Lui ha fatto sì con la testa e poi in perfetto italiano ha detto:
“Gratitudine!” E mi ha fatto il sorriso più bello del mondo. Ecco, io mi sono commossa di nuovo. “Asante Mungo, mzuri sana, molto bene.”
Da quel giorno il mio shamba boy mi lava la macchina ogni lunedì senza bisogno di ricordarglielo, la piccola Ursula sta ancora parcheggiata sotto il frangipani, e l’erba del mio giardino è molto più verde di quella del vicino.
FONTE:Malindikenya
fio- Sostenitore
- Numero di messaggi : 3168
Data d'iscrizione : 21.04.09
Età : 77
Località : Como-Malindi-Africa
Claudia Pelli
Da oggi, ogni due settimane in alternanza con "I racconti di Camilla di Bush Company", Malindikenya.net presenta in esclusiva una serie di racconti di Claudia Peli, l'autrice del romanzo "Shamba" che è stato presentato il mese scorso a Malindi e verrà scoperto dagli italiani il prossimo 3 ottobre alla libreria Feltrinelli di Brescia. Sono piccoli bozzetti d'Africa da una penna scorrevole, analitica e sensibile.
fio- Sostenitore
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Data d'iscrizione : 21.04.09
Età : 77
Località : Como-Malindi-Africa
RACCONTI DI CLAUDIA PELI - 2- PICCOLO REGALO
RACCONTI DI CLAUDIA PELI - 2- PICCOLO REGALO
Da qualche giorno a questa parte trovo ogni mattina sulla mia scrivania una bella noce di cocco fresca con la cannuccia. Mi dico che è un pensiero gentile da parte di Yongo, il cameriere, ma sicuramente c’è sotto qualcosa, e mi aspetto che da un momento all’altro venga a battere cassa.
“Ti piace cocco, mama?” Mi chiede una mattina che mi vede di buon umore.
“Sì Yongo, è molto buono, asante sana.”
“Latte di cocco fa bene alla pancia. Io so.” Mi dice con tono saccente.
“E chi te lo ha detto?”
“La cliente della 711, lei tutti giorni vuole cocco fresco, e io porto.”
“Bravo, e gli altri nostri ospiti? Anche loro lo gradiscono?”
“Se loro chiedono, io porto haraka haraka. Io bravo cameriere.”
“Lo so Yongo, ecco perché lavori qui nel mio team. Ora puoi andare, devo lavorare, guarda qui quanti documenti da controllare e firmare.” E mi concentro sulla cartelletta colma di fogli.
Ma Yongo non se ne va, si allontana solo un paio di metri, si appoggia alla colonna e mi studia. Non sa se è un buon momento per provare a parlarmi oppure no. Io lo so che vuole chiedermi qualcosa, lo so da diversi giorni e sono pronta. Se mi chiede un altro giorno libero per andare al funerale dell’ennesimo cugino di quinto grado deceduto dall’altra parte del Kenya, gli rispondo che siamo in alta stagione e non si può. Se mi chiede ancora un prestito per curare il fratello o la nonna o la figlia che hanno una presunta malaria, lo mando all’ufficio del contabile. Se mi chiede una uniforme nuova, perché questa gli sta un po’ stretta, gli rispondo che il sarto gliene ha già fatte due su misura e che deve smettere di abbuffarsi alla mensa dello staff.
Yongo si avvicina e si schiarisce la voce, fa un bel sorriso e mi dice:
“Sorry mama, posso disturbare momento?”
“Dimmi, ti ascolto.” E lo guardo dritto negli occhi.
“Tu va Italia prossimo mese, eh?”
“Certo, ve l’ho detto durante la riunione, a settembre starò via una settimana. Torno a casa a trovare la mia famiglia.”
“Quando torni qui tu portare me regalo piccolo piccolo, eh?”
Ecco cosa voleva! Il souvenir italiano. Anche l’autista ieri mi ha chiesto se gli porto un cappellino per suo figlio. Va bene, penso, a lui porterò una maglietta , magari della squadra di calcio per cui fa il tifo.
“Certo Yongo, ti porterò qualcosa.” E gli faccio cenno che può andare, ma lui resta lì immobile.
“Mama, io voglio iPod Shuffle verde.” Mi dice serio e determinato.
Io lo guardo sbalordita. Ma come gli è venuto in mente?
“Ma Yongo, sei matto?”
“Cliente della 711 avere iPod Shuffle, bellissimo, dice che dentro cento canzoni, duecento! Anche io voglio tanto mama. Tu compra, eh?”
“Ma Yongo, quello non è un regalo piccolo, è un regalo grosso, costa tanti soldi … capisci?”
Ma lui sorride e scuote la testa e insiste che è un dono piccolo, che è più piccolo del suo pollice, davvero. E mi mostra il suo dito misurandolo.
E io resto spiazzata, come la maggior parte delle volte che tento di fare ragionare queste persone dal cervello semplice con cui convivo quotidianamente. Ed ogni volta non ci capiamo, per forza, la discrepanza culturale è troppo forte e da qui nasce l’incomprensione.
Ora potrei perdere mezz’ora buona per fargli capire che il costo dell’oggetto in questione non è proporzionale alle sue dimensioni fisiche, ma siccome fra dieci minuti devo essere nell’ufficio del direttore a parlare di budget e forniture di detergenti, decido di opporre un cordiale ma deciso no a Yongo.
“Mi dispiace Yongo, non posso comprarti l’iPod Shuffle. Non ce l’ho neppure io, sai?”
E il bambino capriccioso e testardo che c’è dentro il mio cameriere africano arriccia le labbra deluso e guarda in basso e alza le spalle.
“Fa niente mama …” E si allontana deluso.
Lo sento parlottare con i suoi colleghi dietro la siepe per qualche minuto, poi sento delle risate. Ecco, alla fine l’hanno presa bene: ne ridono pure; e questa è una cosa che apprezzo molto degli africani: malgrado l’insuccesso del piano sanno farci sopra una bella risata.
La mattina dopo la noce di cocco sulla mia scrivania naturalmente non c’è più, e neppure quella successiva. Ma non sono stupita.
“Yongo, ma il mio latte di cocco fresco?” Gli chiedo un po’ delusa.
“Sorry mama, cocco finito.”
“Ma se le palme sono piene … guarda là.” Gliele indico col dito.
Yongo sospira e scuote la testa, accenna un sorriso furbo.
“Allora tu chiede shamba boy. Lui prende noce per te. Io adesso tanto lavoro.” Si sistema il farfallino nero al collo e col vassoio sotto il braccio si avvia verso la sala ristorante.
Hakuna matata, penso, qui funziona così e poi oggi a dir la verità avevo voglia di succo di mango.
Fonte:malindikenya
Da qualche giorno a questa parte trovo ogni mattina sulla mia scrivania una bella noce di cocco fresca con la cannuccia. Mi dico che è un pensiero gentile da parte di Yongo, il cameriere, ma sicuramente c’è sotto qualcosa, e mi aspetto che da un momento all’altro venga a battere cassa.
“Ti piace cocco, mama?” Mi chiede una mattina che mi vede di buon umore.
“Sì Yongo, è molto buono, asante sana.”
“Latte di cocco fa bene alla pancia. Io so.” Mi dice con tono saccente.
“E chi te lo ha detto?”
“La cliente della 711, lei tutti giorni vuole cocco fresco, e io porto.”
“Bravo, e gli altri nostri ospiti? Anche loro lo gradiscono?”
“Se loro chiedono, io porto haraka haraka. Io bravo cameriere.”
“Lo so Yongo, ecco perché lavori qui nel mio team. Ora puoi andare, devo lavorare, guarda qui quanti documenti da controllare e firmare.” E mi concentro sulla cartelletta colma di fogli.
Ma Yongo non se ne va, si allontana solo un paio di metri, si appoggia alla colonna e mi studia. Non sa se è un buon momento per provare a parlarmi oppure no. Io lo so che vuole chiedermi qualcosa, lo so da diversi giorni e sono pronta. Se mi chiede un altro giorno libero per andare al funerale dell’ennesimo cugino di quinto grado deceduto dall’altra parte del Kenya, gli rispondo che siamo in alta stagione e non si può. Se mi chiede ancora un prestito per curare il fratello o la nonna o la figlia che hanno una presunta malaria, lo mando all’ufficio del contabile. Se mi chiede una uniforme nuova, perché questa gli sta un po’ stretta, gli rispondo che il sarto gliene ha già fatte due su misura e che deve smettere di abbuffarsi alla mensa dello staff.
Yongo si avvicina e si schiarisce la voce, fa un bel sorriso e mi dice:
“Sorry mama, posso disturbare momento?”
“Dimmi, ti ascolto.” E lo guardo dritto negli occhi.
“Tu va Italia prossimo mese, eh?”
“Certo, ve l’ho detto durante la riunione, a settembre starò via una settimana. Torno a casa a trovare la mia famiglia.”
“Quando torni qui tu portare me regalo piccolo piccolo, eh?”
Ecco cosa voleva! Il souvenir italiano. Anche l’autista ieri mi ha chiesto se gli porto un cappellino per suo figlio. Va bene, penso, a lui porterò una maglietta , magari della squadra di calcio per cui fa il tifo.
“Certo Yongo, ti porterò qualcosa.” E gli faccio cenno che può andare, ma lui resta lì immobile.
“Mama, io voglio iPod Shuffle verde.” Mi dice serio e determinato.
Io lo guardo sbalordita. Ma come gli è venuto in mente?
“Ma Yongo, sei matto?”
“Cliente della 711 avere iPod Shuffle, bellissimo, dice che dentro cento canzoni, duecento! Anche io voglio tanto mama. Tu compra, eh?”
“Ma Yongo, quello non è un regalo piccolo, è un regalo grosso, costa tanti soldi … capisci?”
Ma lui sorride e scuote la testa e insiste che è un dono piccolo, che è più piccolo del suo pollice, davvero. E mi mostra il suo dito misurandolo.
E io resto spiazzata, come la maggior parte delle volte che tento di fare ragionare queste persone dal cervello semplice con cui convivo quotidianamente. Ed ogni volta non ci capiamo, per forza, la discrepanza culturale è troppo forte e da qui nasce l’incomprensione.
Ora potrei perdere mezz’ora buona per fargli capire che il costo dell’oggetto in questione non è proporzionale alle sue dimensioni fisiche, ma siccome fra dieci minuti devo essere nell’ufficio del direttore a parlare di budget e forniture di detergenti, decido di opporre un cordiale ma deciso no a Yongo.
“Mi dispiace Yongo, non posso comprarti l’iPod Shuffle. Non ce l’ho neppure io, sai?”
E il bambino capriccioso e testardo che c’è dentro il mio cameriere africano arriccia le labbra deluso e guarda in basso e alza le spalle.
“Fa niente mama …” E si allontana deluso.
Lo sento parlottare con i suoi colleghi dietro la siepe per qualche minuto, poi sento delle risate. Ecco, alla fine l’hanno presa bene: ne ridono pure; e questa è una cosa che apprezzo molto degli africani: malgrado l’insuccesso del piano sanno farci sopra una bella risata.
La mattina dopo la noce di cocco sulla mia scrivania naturalmente non c’è più, e neppure quella successiva. Ma non sono stupita.
“Yongo, ma il mio latte di cocco fresco?” Gli chiedo un po’ delusa.
“Sorry mama, cocco finito.”
“Ma se le palme sono piene … guarda là.” Gliele indico col dito.
Yongo sospira e scuote la testa, accenna un sorriso furbo.
“Allora tu chiede shamba boy. Lui prende noce per te. Io adesso tanto lavoro.” Si sistema il farfallino nero al collo e col vassoio sotto il braccio si avvia verso la sala ristorante.
Hakuna matata, penso, qui funziona così e poi oggi a dir la verità avevo voglia di succo di mango.
Fonte:malindikenya
Federica- ADMIN
- Numero di messaggi : 1935
Data d'iscrizione : 16.04.09
Età : 47
Località : Uboldo
3- Geppetto
Una mattina, nell’uscire di casa per andare a lavorare, ho notato che nella mia aiuola fuori dal cancello c’era un ragazzo che spazzava via le foglie secche e il takataka. Mi è sembrato strano che un africano avesse tanta coscienza ecologica da pulire un’area privata, probabilmente lo aveva assunto il mio vicino di casa per la giornata, per fare pulizia tra le nostre siepi.
La vera sorpresa l’ho avuta quando sono ritornata la sera: il ragazzo aveva allestito un chioschetto nella mia aiuola! Si era creato un bello spazio in cui aveva costruito un banchetto di legno, uno sgabello e delle mensole. E aveva già disposto con cura e ordine la sua mercanzia.
“Jambo mama!” Mi saluta cordialmente.
“Jambo kijana.” Gli rispondo un po’ seccata. E poi gli chiedo cosa sta facendo.
“Fare solo piccolo business.” E mi sorride.
“Ma lo devi fare proprio dentro la mia aiuola il tuo business?”
Lui alza le spalle, si guarda intorno e mi dice che è un bel posto per aprire il suo negozio, perché c’è la grande ombra della palma che lo rinfresca, e proprio lì di fronte c’è l’ingresso alla spiaggia pubblica dove passa tanta gente. Ed io gli rispondo che capisco le sue ragioni, ma che sta occupando una proprietà privata.
“Sei un abusivo, mi capisci?”
“Abusivo … nini?” Mi chiede lui perplesso.
Ma perché dopo sette anni che vivo in Kenya tento ancora di spiegare un concetto tipicamente occidentale ad un giovane africano analfabeta? E mi arrendo, tanto a pensarci bene lui non mi da alcun fastidio.
“Come ti chiami?” Addolcisco la mia voce.
“Io Geppetto falegname.”
E mi viene da ridere perché questi africani hanno davvero tanta fantasia: ho un amico che cambia i soldi in spiaggia ai turisti e si fa chiamare Bancomat, un altro che fa il sarto e bazzica spesso di fronte agli alberghi si fa chiamare Valentino.
“Vuoi comprare bello ippopotamo?” E mi mostra orgoglioso una statuetta di legno che ha appena finito di limare.
“Ebano vero, look.” Mi dice e gratta con l’unghia il legno scuro.
Come no, penso io, lucido da scarpa autentico: conosco il vecchio trucco.
“No, grazie Geppetto, l’ippopotamo ce l’ho già. Anche la giraffa e tutti gli altri animali della savana.” Poi ammiro le belle sculture che ha disposto con cura sul banchetto e gli faccio i complimenti.
Lui mi guarda contento, poi tira fuori da un sacchetto di plastica un piccolo busto di Pokot a cui è legato un anello di ferro. E’ un portachiavi.
“Regalo per te. Adesso noi amici.”
“Grazie! Ma che bello!” E per fargli vedere che lo apprezzo veramente ci infilo subito le mie chiavi di casa.
Ci salutiamo e gli auguro buona fortuna col suo piccolo business.
Qualche giorno dopo, durante una riunione di lavoro, la direttrice nota il mio nuovo portachiavi e mi dice che le piace: potrebbe essere una buona idea come regalo di Natale ai nostri ospiti. Le racconto brevemente l’episodio di Geppetto.
“Arriva ogni mattina presto con due grossi sacchi in spalla. Pulisce per bene la piazzuola, tira fuori tutte le sue statuine e poi accucciato sullo sgabello comincia a intagliarne di nuove. Ha molto talento, purtroppo in una settimana non ha ancora venduto niente: i turisti vanno nei soliti negozietti in città … poveraccio.”
“Ok, aiutiamolo noi. Ordinagli quattrocento portachiavi, devono essere pronti al massimo entro un mese.” Mi dice.
Questa iniziativa di solidarietà mi rende felice e sono certa che anche Geppetto sarà contento della novità.
La sera rivedo il giovane falegname che ripone le sue cose dentro il sacco. Nonostante gli affari non gli vadano bene lui è ancora di buon umore e fiducioso.
“Jambo Geppetto, ho un lavoro per te. Mi servono altri portachiavi Pokot. Me ne servono tanti sai?”
Gli si illuminano gli occhi e mi invita a sedermi sullo sgabello, per fare meglio il business, e lui si accuccia per terra.
“Certo mama, quanti?” Mi chiede speranzoso.
“Quattrocento.” Gli scandisco bene il numero, e glielo ripeto in swahili.
Geppetto resta a bocca aperta e si gratta il mento, credo di averlo scioccato. Poi deglutisce e mi dice che forse io intendevo dire quaranta.
“No rafiki, ho detto proprio quattrocento. Li puoi fare? Mi servono entro un mese. Ma devono essere tutti belli come il mio, ok?”
Geppetto è al settimo cielo e salta in piedi come un grillo e mi ringrazia in diverse lingue. E mi benedice pure, neanche fosse un prete. Gli do un acconto per comprare il legno e ci salutiamo con una energica stretta di mano.
La mattina dopo mi aspetto di vederlo già all’opera, e invece il chioschetto è deserto. Niente Geppetto nei dintorni … e anche le mattine successive non si fa vivo. Ed io comincio a pensare che mi ha tirato una gran fregatura: si è preso i soldi e probabilmente è andato ad aprire il suo nuovo business nell’aiuola di qualcun altro. Che sciocca sono stata.
E invece, che bella sorpresa, dieci giorni dopo me lo vedo lì che mi aspetta sul cancello, con quattro borse di plastica gialle in mano.
“Jambo mama!” Esulta felice di rivedermi.
“Geppetto! Allora non eri scappato col malloppo!”
Lui fa no con la testa e poi ridiamo insieme. E mi racconta che è tornato al suo villaggio, dentro il bush al nord, e lì ha assunto tutta la tribù dei suoi fratelli e cugini e zii per fare i quattrocento portachiavi haraka sana.
“Ecco, look!” Apre le sue borse e mi mostra la merce soddisfatto.
“Bravo rafiki!” Gli batto una mano sulla spalla.
Geppetto col suo bel gruzzolo ha ingrandito il business e ha spostato il chiosco in una piazzuola più ampia dall’altra parte della strada. Si è pure messo in società con un pittore che si fa chiamare Picasso e tutte le mattine quando vado al lavoro li vedo all’opera.
Ultimamente sta intagliando piccole tartarughe, mi ha detto che gliene hanno ordinate oltre cinquecento pezzi.
“Bravo! E le fai tutte da solo stavolta?”
“No mama, domani arrivare fratelli e cugini per dare piccolo aiuto.”
“Bene, avrai un po’ di compagnia, e quanti sono?”
“Trenta.”
Mi sa che ho capito male … trenta Geppetti che fanno tartarughe in un’aiuola? Mah, però a pensarci bene qui in Africa tutto è possibile.
Fonte : MalindiKenya
La vera sorpresa l’ho avuta quando sono ritornata la sera: il ragazzo aveva allestito un chioschetto nella mia aiuola! Si era creato un bello spazio in cui aveva costruito un banchetto di legno, uno sgabello e delle mensole. E aveva già disposto con cura e ordine la sua mercanzia.
“Jambo mama!” Mi saluta cordialmente.
“Jambo kijana.” Gli rispondo un po’ seccata. E poi gli chiedo cosa sta facendo.
“Fare solo piccolo business.” E mi sorride.
“Ma lo devi fare proprio dentro la mia aiuola il tuo business?”
Lui alza le spalle, si guarda intorno e mi dice che è un bel posto per aprire il suo negozio, perché c’è la grande ombra della palma che lo rinfresca, e proprio lì di fronte c’è l’ingresso alla spiaggia pubblica dove passa tanta gente. Ed io gli rispondo che capisco le sue ragioni, ma che sta occupando una proprietà privata.
“Sei un abusivo, mi capisci?”
“Abusivo … nini?” Mi chiede lui perplesso.
Ma perché dopo sette anni che vivo in Kenya tento ancora di spiegare un concetto tipicamente occidentale ad un giovane africano analfabeta? E mi arrendo, tanto a pensarci bene lui non mi da alcun fastidio.
“Come ti chiami?” Addolcisco la mia voce.
“Io Geppetto falegname.”
E mi viene da ridere perché questi africani hanno davvero tanta fantasia: ho un amico che cambia i soldi in spiaggia ai turisti e si fa chiamare Bancomat, un altro che fa il sarto e bazzica spesso di fronte agli alberghi si fa chiamare Valentino.
“Vuoi comprare bello ippopotamo?” E mi mostra orgoglioso una statuetta di legno che ha appena finito di limare.
“Ebano vero, look.” Mi dice e gratta con l’unghia il legno scuro.
Come no, penso io, lucido da scarpa autentico: conosco il vecchio trucco.
“No, grazie Geppetto, l’ippopotamo ce l’ho già. Anche la giraffa e tutti gli altri animali della savana.” Poi ammiro le belle sculture che ha disposto con cura sul banchetto e gli faccio i complimenti.
Lui mi guarda contento, poi tira fuori da un sacchetto di plastica un piccolo busto di Pokot a cui è legato un anello di ferro. E’ un portachiavi.
“Regalo per te. Adesso noi amici.”
“Grazie! Ma che bello!” E per fargli vedere che lo apprezzo veramente ci infilo subito le mie chiavi di casa.
Ci salutiamo e gli auguro buona fortuna col suo piccolo business.
Qualche giorno dopo, durante una riunione di lavoro, la direttrice nota il mio nuovo portachiavi e mi dice che le piace: potrebbe essere una buona idea come regalo di Natale ai nostri ospiti. Le racconto brevemente l’episodio di Geppetto.
“Arriva ogni mattina presto con due grossi sacchi in spalla. Pulisce per bene la piazzuola, tira fuori tutte le sue statuine e poi accucciato sullo sgabello comincia a intagliarne di nuove. Ha molto talento, purtroppo in una settimana non ha ancora venduto niente: i turisti vanno nei soliti negozietti in città … poveraccio.”
“Ok, aiutiamolo noi. Ordinagli quattrocento portachiavi, devono essere pronti al massimo entro un mese.” Mi dice.
Questa iniziativa di solidarietà mi rende felice e sono certa che anche Geppetto sarà contento della novità.
La sera rivedo il giovane falegname che ripone le sue cose dentro il sacco. Nonostante gli affari non gli vadano bene lui è ancora di buon umore e fiducioso.
“Jambo Geppetto, ho un lavoro per te. Mi servono altri portachiavi Pokot. Me ne servono tanti sai?”
Gli si illuminano gli occhi e mi invita a sedermi sullo sgabello, per fare meglio il business, e lui si accuccia per terra.
“Certo mama, quanti?” Mi chiede speranzoso.
“Quattrocento.” Gli scandisco bene il numero, e glielo ripeto in swahili.
Geppetto resta a bocca aperta e si gratta il mento, credo di averlo scioccato. Poi deglutisce e mi dice che forse io intendevo dire quaranta.
“No rafiki, ho detto proprio quattrocento. Li puoi fare? Mi servono entro un mese. Ma devono essere tutti belli come il mio, ok?”
Geppetto è al settimo cielo e salta in piedi come un grillo e mi ringrazia in diverse lingue. E mi benedice pure, neanche fosse un prete. Gli do un acconto per comprare il legno e ci salutiamo con una energica stretta di mano.
La mattina dopo mi aspetto di vederlo già all’opera, e invece il chioschetto è deserto. Niente Geppetto nei dintorni … e anche le mattine successive non si fa vivo. Ed io comincio a pensare che mi ha tirato una gran fregatura: si è preso i soldi e probabilmente è andato ad aprire il suo nuovo business nell’aiuola di qualcun altro. Che sciocca sono stata.
E invece, che bella sorpresa, dieci giorni dopo me lo vedo lì che mi aspetta sul cancello, con quattro borse di plastica gialle in mano.
“Jambo mama!” Esulta felice di rivedermi.
“Geppetto! Allora non eri scappato col malloppo!”
Lui fa no con la testa e poi ridiamo insieme. E mi racconta che è tornato al suo villaggio, dentro il bush al nord, e lì ha assunto tutta la tribù dei suoi fratelli e cugini e zii per fare i quattrocento portachiavi haraka sana.
“Ecco, look!” Apre le sue borse e mi mostra la merce soddisfatto.
“Bravo rafiki!” Gli batto una mano sulla spalla.
Geppetto col suo bel gruzzolo ha ingrandito il business e ha spostato il chiosco in una piazzuola più ampia dall’altra parte della strada. Si è pure messo in società con un pittore che si fa chiamare Picasso e tutte le mattine quando vado al lavoro li vedo all’opera.
Ultimamente sta intagliando piccole tartarughe, mi ha detto che gliene hanno ordinate oltre cinquecento pezzi.
“Bravo! E le fai tutte da solo stavolta?”
“No mama, domani arrivare fratelli e cugini per dare piccolo aiuto.”
“Bene, avrai un po’ di compagnia, e quanti sono?”
“Trenta.”
Mi sa che ho capito male … trenta Geppetti che fanno tartarughe in un’aiuola? Mah, però a pensarci bene qui in Africa tutto è possibile.
Fonte : MalindiKenya
Ultima modifica di Simona il Dom Nov 01, 2009 4:55 pm - modificato 1 volta.
4 - Censimento
Qualche tempo fa a Malindi è stato fatto il censimento; credevo riguardasse solo gli africani, e invece qualcuno è venuto a bussare alla mia porta.
Quando ho aperto, ho visto sul pianerottolo una donna sorridente e minuta, che mi esibiva un tesserino di riconoscimento e sotto il braccio aveva una grande cartella bianca.
“Jambo! Sono qui per il censimento.” Mi dice cordiale.
“Ma io non sono africana.” Obietto tranquilla.
“Lo vedo, però ci risulta che sei residente. Quindi ti devo fare alcune domande. Ci vorranno solo pochi minuti.” Mi assicura.
Ci accomodiamo in salotto; mi dice che si chiama Janet, che fa la maestra in una scuola elementare ed è orgogliosa di essere stata scelta per questa importante missione.
Le dico che mi chiamo Claudia, che risiedo in Kenya da oltre sei anni e mi ritengo fortunata a vivere in una terra tanto bella. E Janet sorride compiaciuta, poi si guarda in giro.
“Che casa grande! Dove sono gli altri?”
“Quali altri? Io vivo sola.”
“Sola in tutto questo spazio? Noi viviamo in sette persone in due stanze.”
“State un po’ strettini, eh?”
“Emmm… qualche volta sì.”
Poi nota le fotografie dei miei nipotini e mi chiede se sono figli miei.
“No, sono di mia sorella, io non ho bambini.”
Non capisco se la sua espressione sia di disappunto o di dispiacere. Guarda sulla mia ID card la data di nascita e scuote la testa; poi aggiunge in tono confidenziale che lei ne ha già cinque, e di non preoccuparmi, che Dio me li manderà presto se avrò fede.
Mi viene da ridere, ma mi trattengo per non offenderla. Eh sì, vivo in un Paese dove le donne della mia età sono già nonne…
“Cominciamo con le domande?” La incoraggio, per non perdere tempo.
Janet apre la cartella e fa la punta alla matita.
“Prima domanda: sei sposata?”
“No, sono single.”
Ecco, questa volta la sua faccia è davvero dispiaciuta, quasi preoccupata.
“Una donna ha bisogno di un uomo che si prenda cura di lei…” Afferma severa.
“Janet, io mi prendo cura di me stessa benissimo, credimi. Le donne europee non sono come le donne africane di Malindi: sono più emancipate, più indipendenti, davvero. Stanno bene anche da sole.” Le spiego.
Janet alza entrambe le sopracciglia, perplessa, e si vede che non è d’accordo. Per lei una donna è sempre una donna e DEVE aver bisogno di un uomo. Che strane queste wazungu, sta sicuramente pensando, mentre mette la crocetta su una casella.
“Andiamo avanti con le domande?”
“Certo. Beni di lusso: possiedi un frigorifero?”
“Sicuro! E chi non ha il frigorifero di questi tempi?”
“Io non ce l’ho. Nessuno dei miei vicini ce l’ha.” Mi bacchetta lei.
E forse dovrei sentirmi sciocca per quello che ho appena detto d’impulso, e magari anche vergognarmi di avere una lavastoviglie ed una lavatrice? D’altra parte in Italia si danno per scontate cose che qui sono ancora considerate di lusso.
Passiamo alle domande sugli animali. Mi dice. Sì, è meglio.
“Quante capre hai?”
Penso di non aver capito bene e le chiedo di ripetere.
“Niente capre.”
“E galline?”
“Hakuna.”
“Chi bada alle mucche?”
“No, non ho nemmeno quelle.”
“Hai una shamba, quanto è grande? E chi la coltiva?”
“Ho solo un giardino condominiale. E una piantina di basilico in terrazza. Scusa Janet, ma a me paiono domande fatte apposta per voi cittadini kenioti, non ti pare?”
“Emmm, magari sì, però io devo fare il mio lavoro.” Si giustifica alzando le spalle.
“Certo, certo. Continuiamo.” La incoraggio e mi rassegno, perché è chiaro che ha preso la sua missione molto sul serio.
“Questa casa l’hai costruita tu o l’hai comprata già fatta?”
“Ma no … l’ho comprata così, non sono mica un ingegnere io!” Scherzo.
“Neanche mio marito è ingegnere, lui guida i matatu. Però la nostra casetta l’ha fatta tutta lui.” Proclama fiera.
“Speriamo che sia solo un piano terra, eh?” Ribatto io, ma Janet non ha capito la mia battuta e mi guarda stranita.
Pole pole arriviamo fino all’ultima domanda.
“Hai la televisione?” Mi chiede e sta già mettendo la crocetta sulla casellina del sì, senza aspettare la mia risposta.
“No, non ce l’ho.”
Lei mi guarda stupita e poi da un’occhiata in giro, e non vede nessuna tv.
“Ma come? Tutti i wazungu hanno la tv …” E’ incredula. Ecco, l’ho spiazzata.
“Può darsi … ma non tutti gli africani ce l’hanno, giusto?”
“Io sì, ce l’ho.” Mi dice contenta e soddisfatta.
“Davvero?”
“Certo. Ci siamo messi insieme, quattro famiglie, e l’abbiamo comprata: usata, al mercato vecchio. Sai, gli uomini vogliono vedere le partite di calcio la sera.”
“Ma dai … anche gli uomini italiani!”
Ecco, alla fine una cosa in comune l’abbiamo trovata: il calcio. E ci sorridiamo allegre.
Quando finiamo le offro una cocacola e poi la riaccompagno alla porta. Janet mi stringe la mano e mi augura di trovare un brav’uomo che mi faccia compagnia in questa casa solitaria. Ed io per un attimo temo che mi voglia proporre suo fratello, suo cugino, o suo cognato …invece no, si sistema meglio la cartella sotto il braccio e il tesserino sulla camicetta. E pole pole si avvia giù per le scale. Ha altri wazungu da andare a censire oggi, lakini hakuna haraka. Ma senza fretta.
Fonte :MalindiKenya
Quando ho aperto, ho visto sul pianerottolo una donna sorridente e minuta, che mi esibiva un tesserino di riconoscimento e sotto il braccio aveva una grande cartella bianca.
“Jambo! Sono qui per il censimento.” Mi dice cordiale.
“Ma io non sono africana.” Obietto tranquilla.
“Lo vedo, però ci risulta che sei residente. Quindi ti devo fare alcune domande. Ci vorranno solo pochi minuti.” Mi assicura.
Ci accomodiamo in salotto; mi dice che si chiama Janet, che fa la maestra in una scuola elementare ed è orgogliosa di essere stata scelta per questa importante missione.
Le dico che mi chiamo Claudia, che risiedo in Kenya da oltre sei anni e mi ritengo fortunata a vivere in una terra tanto bella. E Janet sorride compiaciuta, poi si guarda in giro.
“Che casa grande! Dove sono gli altri?”
“Quali altri? Io vivo sola.”
“Sola in tutto questo spazio? Noi viviamo in sette persone in due stanze.”
“State un po’ strettini, eh?”
“Emmm… qualche volta sì.”
Poi nota le fotografie dei miei nipotini e mi chiede se sono figli miei.
“No, sono di mia sorella, io non ho bambini.”
Non capisco se la sua espressione sia di disappunto o di dispiacere. Guarda sulla mia ID card la data di nascita e scuote la testa; poi aggiunge in tono confidenziale che lei ne ha già cinque, e di non preoccuparmi, che Dio me li manderà presto se avrò fede.
Mi viene da ridere, ma mi trattengo per non offenderla. Eh sì, vivo in un Paese dove le donne della mia età sono già nonne…
“Cominciamo con le domande?” La incoraggio, per non perdere tempo.
Janet apre la cartella e fa la punta alla matita.
“Prima domanda: sei sposata?”
“No, sono single.”
Ecco, questa volta la sua faccia è davvero dispiaciuta, quasi preoccupata.
“Una donna ha bisogno di un uomo che si prenda cura di lei…” Afferma severa.
“Janet, io mi prendo cura di me stessa benissimo, credimi. Le donne europee non sono come le donne africane di Malindi: sono più emancipate, più indipendenti, davvero. Stanno bene anche da sole.” Le spiego.
Janet alza entrambe le sopracciglia, perplessa, e si vede che non è d’accordo. Per lei una donna è sempre una donna e DEVE aver bisogno di un uomo. Che strane queste wazungu, sta sicuramente pensando, mentre mette la crocetta su una casella.
“Andiamo avanti con le domande?”
“Certo. Beni di lusso: possiedi un frigorifero?”
“Sicuro! E chi non ha il frigorifero di questi tempi?”
“Io non ce l’ho. Nessuno dei miei vicini ce l’ha.” Mi bacchetta lei.
E forse dovrei sentirmi sciocca per quello che ho appena detto d’impulso, e magari anche vergognarmi di avere una lavastoviglie ed una lavatrice? D’altra parte in Italia si danno per scontate cose che qui sono ancora considerate di lusso.
Passiamo alle domande sugli animali. Mi dice. Sì, è meglio.
“Quante capre hai?”
Penso di non aver capito bene e le chiedo di ripetere.
“Niente capre.”
“E galline?”
“Hakuna.”
“Chi bada alle mucche?”
“No, non ho nemmeno quelle.”
“Hai una shamba, quanto è grande? E chi la coltiva?”
“Ho solo un giardino condominiale. E una piantina di basilico in terrazza. Scusa Janet, ma a me paiono domande fatte apposta per voi cittadini kenioti, non ti pare?”
“Emmm, magari sì, però io devo fare il mio lavoro.” Si giustifica alzando le spalle.
“Certo, certo. Continuiamo.” La incoraggio e mi rassegno, perché è chiaro che ha preso la sua missione molto sul serio.
“Questa casa l’hai costruita tu o l’hai comprata già fatta?”
“Ma no … l’ho comprata così, non sono mica un ingegnere io!” Scherzo.
“Neanche mio marito è ingegnere, lui guida i matatu. Però la nostra casetta l’ha fatta tutta lui.” Proclama fiera.
“Speriamo che sia solo un piano terra, eh?” Ribatto io, ma Janet non ha capito la mia battuta e mi guarda stranita.
Pole pole arriviamo fino all’ultima domanda.
“Hai la televisione?” Mi chiede e sta già mettendo la crocetta sulla casellina del sì, senza aspettare la mia risposta.
“No, non ce l’ho.”
Lei mi guarda stupita e poi da un’occhiata in giro, e non vede nessuna tv.
“Ma come? Tutti i wazungu hanno la tv …” E’ incredula. Ecco, l’ho spiazzata.
“Può darsi … ma non tutti gli africani ce l’hanno, giusto?”
“Io sì, ce l’ho.” Mi dice contenta e soddisfatta.
“Davvero?”
“Certo. Ci siamo messi insieme, quattro famiglie, e l’abbiamo comprata: usata, al mercato vecchio. Sai, gli uomini vogliono vedere le partite di calcio la sera.”
“Ma dai … anche gli uomini italiani!”
Ecco, alla fine una cosa in comune l’abbiamo trovata: il calcio. E ci sorridiamo allegre.
Quando finiamo le offro una cocacola e poi la riaccompagno alla porta. Janet mi stringe la mano e mi augura di trovare un brav’uomo che mi faccia compagnia in questa casa solitaria. Ed io per un attimo temo che mi voglia proporre suo fratello, suo cugino, o suo cognato …invece no, si sistema meglio la cartella sotto il braccio e il tesserino sulla camicetta. E pole pole si avvia giù per le scale. Ha altri wazungu da andare a censire oggi, lakini hakuna haraka. Ma senza fretta.
Fonte :MalindiKenya
5-Beniamino l'acrobata
Se incontrate un bambino che bazzica in spiaggia tutto il giorno elemosinando caramelle, pennarelli, scellini e che non vi lascia in pace finché non vi ha strappato la promessa che il giorno dopo gli porterete un regalino, provate a chiedergli cosa vuole fare da grande. La metà delle volte il bambino vi risponderà che vuole fare l’acrobata, come il cugino Kazungu o il fratello Katana. Perché in famiglia c’è sempre qualcuno che fa il saltimbanco ed è ammirato da tutti.
Sulla Silversand beach ci sono spesso bande di ragazzini che si esercitano a fare tripli salti mortali, capriole carpiate e varie acrobazie, per divertire i turisti e raccattare qualche monetina, nella speranza di far parte da grandi di un gruppo e trovare lavoro negli alberghi.
Certi giorni resto incantata a lungo ad ammirare la loro agilità e spesso sto col fiato sospeso perché sembra sempre che uno di loro stia per spezzarsi l’osso del collo. Sono agili come gatti questi bambini ed elastici come molle, chissà, forse dentro son tutti fatti di gomma.
Un giorno,mentre passeggiavo sulla spiaggia, mi ritrovai Beniamino tra i piedi, nel vero senso della parola: non lo vidi, gli inciampai addosso e caddi per terra accanto a lui. E come avrei potuto notarlo? Si era completamente insabbiato e stava immobile come un geco sul soffitto. Lì per lì mi arrabbiai un poco e stavo per dirgliene quattro quando mi accorsi che gli mancava una gamba e la compassione ebbe il sopravvento. Così mi misi a ridere con lui della mia goffaggine.
Il bambino si tirò su a sedere e si scrollò via la sabbia, un po’ come fanno i cani bagnati con l’acqua. E si presentò.
“Io Beniamino, tuo nome?”
“Io Claudia. Perché ti sei messo tutta quella sabbia addosso?”
“Sabbia fa pelle bella, mama Rita dice questo, e fa tutti giorni. Anche io faccio, io bello.” Mi spiegò serio e mi venne da ridere perché il ragionamento non faceva una piega.
“Perché non sei a scuola?”
“Oggi public holiday.”
Ah già, pensai, un’altra festa pubblica tanto per cambiare, credo che il Kenya detenga il primato mondiale.
“Ma sei qui solo? E i tuoi amici?”
Beniamino si strinse nelle spalle e mi indicò un gruppetto di bambini che stavano dando bella mostra della loro abilità acrobatica di fronte a un hotel. Alcuni turisti erano affacciati sul muretto e battevano le mani divertiti dallo show.
“Io no. Loro dice io gamba moja. No buono acrobata, e io qui guardo mare.”
“Mi dispiace.”
“Tu adesso guarda.” Mi disse serio.
Si levò in piedi, in equilibrio su una gamba, e con un balzo felino in avanti andò su in una perfetta verticale a testa in giù.
“Tu conta.” Mi chiese.
“Uno, due, tre …” Continuai a contare a arrivai fino a venti, quando gli vidi tremare le braccia magre, e poi accasciarsi sulla sabbia a pancia in giù.
“Bravo Beniamino!” E lo applaudii sincera. Mi dispiaceva non avere niente con me da dargli, ero uscita a mani vuote, ma gli promisi che gli avrei portato delle matite colorate per la scuola il giorno dopo.
Lui mi sorrise fiero della sua performance e poi si voltò indietro a guardare i suoi amici. Due di loro lo avevano notato e si avvicinarono per dirgli che avevano bisogno di lui. A Beniamino luccicarono gli occhi di gioia. Se lo caricarono in spalla e lo portarono proprio sotto il muretto dell’hotel, dove lo mostrarono come un trofeo ai turisti.
“Fare foto Beniamino acrobata gamba moja! Cento scellini!” Urlarono i ragazzini e costrinsero il piccolo a tornare su in verticale e a camminare in cerchio sulle mani, come una scimmietta ammaestrata. Mentre loro con fischi e schiamazzi cercavano di attirare l’attenzione di altri bianchi in spiaggia. E Beniamino stava al gioco e non si rendeva conto che stavano usando la sua menomazione fisica solo per fare più soldi. La pietà è un’emozione facile da sfruttare da queste parti. O forse era anche lui complice del piano? Non saprei dirlo, comunque sembrava contento di essere finalmente al centro dell’attenzione: anche se aveva una sola gamba, la faceva svettare dritta verso il cielo e ciondolava la sua piccola testa di qua e di là, al ritmo del battito delle mani. Guardai la scena per alcuni istanti, poi proseguii la mia passeggiata, verso il parco marino, ma non ero già più sola: avevo al seguito un gruppetto di bambini che mi saltellavano intorno come cavallette e mi chiedevano caramelle, pennarelli, cinquanta scellini.
Fonte : Malindikenya
Sulla Silversand beach ci sono spesso bande di ragazzini che si esercitano a fare tripli salti mortali, capriole carpiate e varie acrobazie, per divertire i turisti e raccattare qualche monetina, nella speranza di far parte da grandi di un gruppo e trovare lavoro negli alberghi.
Certi giorni resto incantata a lungo ad ammirare la loro agilità e spesso sto col fiato sospeso perché sembra sempre che uno di loro stia per spezzarsi l’osso del collo. Sono agili come gatti questi bambini ed elastici come molle, chissà, forse dentro son tutti fatti di gomma.
Un giorno,mentre passeggiavo sulla spiaggia, mi ritrovai Beniamino tra i piedi, nel vero senso della parola: non lo vidi, gli inciampai addosso e caddi per terra accanto a lui. E come avrei potuto notarlo? Si era completamente insabbiato e stava immobile come un geco sul soffitto. Lì per lì mi arrabbiai un poco e stavo per dirgliene quattro quando mi accorsi che gli mancava una gamba e la compassione ebbe il sopravvento. Così mi misi a ridere con lui della mia goffaggine.
Il bambino si tirò su a sedere e si scrollò via la sabbia, un po’ come fanno i cani bagnati con l’acqua. E si presentò.
“Io Beniamino, tuo nome?”
“Io Claudia. Perché ti sei messo tutta quella sabbia addosso?”
“Sabbia fa pelle bella, mama Rita dice questo, e fa tutti giorni. Anche io faccio, io bello.” Mi spiegò serio e mi venne da ridere perché il ragionamento non faceva una piega.
“Perché non sei a scuola?”
“Oggi public holiday.”
Ah già, pensai, un’altra festa pubblica tanto per cambiare, credo che il Kenya detenga il primato mondiale.
“Ma sei qui solo? E i tuoi amici?”
Beniamino si strinse nelle spalle e mi indicò un gruppetto di bambini che stavano dando bella mostra della loro abilità acrobatica di fronte a un hotel. Alcuni turisti erano affacciati sul muretto e battevano le mani divertiti dallo show.
“Io no. Loro dice io gamba moja. No buono acrobata, e io qui guardo mare.”
“Mi dispiace.”
“Tu adesso guarda.” Mi disse serio.
Si levò in piedi, in equilibrio su una gamba, e con un balzo felino in avanti andò su in una perfetta verticale a testa in giù.
“Tu conta.” Mi chiese.
“Uno, due, tre …” Continuai a contare a arrivai fino a venti, quando gli vidi tremare le braccia magre, e poi accasciarsi sulla sabbia a pancia in giù.
“Bravo Beniamino!” E lo applaudii sincera. Mi dispiaceva non avere niente con me da dargli, ero uscita a mani vuote, ma gli promisi che gli avrei portato delle matite colorate per la scuola il giorno dopo.
Lui mi sorrise fiero della sua performance e poi si voltò indietro a guardare i suoi amici. Due di loro lo avevano notato e si avvicinarono per dirgli che avevano bisogno di lui. A Beniamino luccicarono gli occhi di gioia. Se lo caricarono in spalla e lo portarono proprio sotto il muretto dell’hotel, dove lo mostrarono come un trofeo ai turisti.
“Fare foto Beniamino acrobata gamba moja! Cento scellini!” Urlarono i ragazzini e costrinsero il piccolo a tornare su in verticale e a camminare in cerchio sulle mani, come una scimmietta ammaestrata. Mentre loro con fischi e schiamazzi cercavano di attirare l’attenzione di altri bianchi in spiaggia. E Beniamino stava al gioco e non si rendeva conto che stavano usando la sua menomazione fisica solo per fare più soldi. La pietà è un’emozione facile da sfruttare da queste parti. O forse era anche lui complice del piano? Non saprei dirlo, comunque sembrava contento di essere finalmente al centro dell’attenzione: anche se aveva una sola gamba, la faceva svettare dritta verso il cielo e ciondolava la sua piccola testa di qua e di là, al ritmo del battito delle mani. Guardai la scena per alcuni istanti, poi proseguii la mia passeggiata, verso il parco marino, ma non ero già più sola: avevo al seguito un gruppetto di bambini che mi saltellavano intorno come cavallette e mi chiedevano caramelle, pennarelli, cinquanta scellini.
Fonte : Malindikenya
6 - "La fatina dei denti in Africa"
Al figlio di Kamau, il nostro fido askari, oggi è caduto un dente. Me lo ha mostrato stamattina, lo teneva nel palmo: un bel canino bianco perfetto.
“Non ti preoccupare per il buco Juma, fra qualche giorno ti spunta quello nuovo.”
E lui ha fatto sì con la testa, lo sapeva già: non è il primo dente che perde e sa come funziona.
Gli ho detto anche che poi i denti di scorta finiscono, e lui deve starci attento e lavarseli bene, altrimenti si ritrova come suo padre che a vent’otto anni è già mezzo sdentato. E Juma si è messo a ridere di gusto.
In quel momento passava sulle scale la nuova vicina del piano di sotto, che ha affittato l’appartamento per quattro settimane. Ha notato che Juma teneva qualcosa chiuso nel pugno, si è incuriosita e gli ha chiesto di mostrarle il suo tesoro.
“Oh, ma che bel dentino! Mi raccomando, mettilo sul comodino stanotte che la fatina ti porta i soldini.” E gli ha dato un buffetto sulla guancia prima di entrare n casa con le sue borse piene di manghi e papaie.
Juma mi ha guardato perplesso: fatina? Soldi? Di che cosa parlava la vicina, mi chiedevano i suoi occhioni neri. Naturalmente si aspettava una spiegazione da parte mia. Quindi gli ho raccontato che da noi, quando un bimbo perde un dente, lo regala ad una signora buona che si chiama fata, che di notte viene a prenderselo e lascia delle monetine in cambio. Juma si è illuminato di gioia ed è scappato via col suo piccolo tesoro in mano, prima che io potessi spiegargli che la fatina non arriva fino in Kenya, perché è un po’ pigra e forse non sa nemmeno dove sia l’Africa …
Il bimbo è corso dal suo papà al cancello, e gli ha riferito le mie parole. E Kamau è venuto subito da me, eccitato dalla novità e dalla possibilità di guadagnare qualche soldo extra. Mi ha chiesto di spiegargli meglio la storia della fatina dei denti, e dal suo sguardo così attento ho capito che era meglio dirgli la verità, prima che cominciasse a cavar denti dai suoi quattro figli.
“Ascolta Kamau, è tutta una invenzione, una favola, capisci? E’ la mamma del bambino che si prende il dente e lascia la moneta. Si tratta di un piccolo premio di consolazione, ecco, tutto qui.”
Ma Kamau ha scosso la testa poco convinto. E’ normale perdere i denti, che bisogno c’è di essere consolati? Mah … questi wazungu sono davvero strani, pensava mentre si allontanava deluso.
Il piccolo Juma domani non troverà niente sul comodino e sicuramente verrà a protestare da me che i bambini bianchi sono sempre più fortunati, che è una ingiustizia. E ha ragione: ripenso alla mia fantastica infanzia in cui non mi è mancato niente e forse ho avuto troppo. Ogni anno una bicicletta nuova, belle bambole, l’ultimo modello di barbie ad ogni cambio stagione, giocattoli, libri di favole, vestitini, scarpette e accessori. Sì, sono stata una bambina mzungu privilegiata, mentre lui non ha neanche un letto, e dorme su una stuoia di palma appoggiata sul pavimento. Juma non ha niente, forse nemmeno un paio di mutande sotto quei calzoncini luridi e bucati che ha sempre addosso. Però Juma è forte e sano e passa le giornate a saltare le onde nell’oceano e ad arrampicarsi sugli alberi, ed ha qualcosa di molto prezioso: una grande creatività. E i giocattoli se li crea da solo con ciò che trova in giro. Con fili di ferro, pezzi di legno e di plastica, vecchi pneumatici, lattine e altro lui crea mille cose: barchette, pupazzi, macchinine, casette, fortini… ci sa proprio fare.
Qualche volta lo sorprendo che rovista nei nostri bidoni dell’immondizia giù in fondo al giardino nella speranza di trovare qualcosa di utile e di bello, perché si sa che i wazungu spesso buttano via cose ancora buone da usare, che spreconi. E mi fa pena e mi arrabbio con Kamau che non lo educa a stare lontano dall’immondizia.
“Kamau! Guarda che Juma è finito ancora dentro il bidone del takataka! Tiralo fuori che piglia qualche infezione!” Gli urlo dal mio balcone.
Ma lui scrolla la testa, indifferente, mi sorride senza denti e alza le spalle.
“Lui felice giocare con takataka, hakuna matata, mama.”
“Ma non è igienico!” Ribatto io.
Ma Kamau mi ignora e fischietta, e continua a sputare palline di marungi per terra e a chiacchierare con gli amici al di là del cancello dove sta di guardia.
No, non capisce il concetto di igiene, per forza, anche lui da bambino faceva la stessa cosa e probabilmente anche il figlio di Juma lo farà… io mi auguro proprio di no.
Mi viene un’idea, lo so che è sbagliata, ma per stavolta farò una eccezione. Per una notte mi trasformerò nella fatina dei denti e lascerò a Juma cento scellini. Dirò a Kamau che sarà esclusivamente per una sola volta e che non si aspetti la stessa cosa per gli altri figli e gli altri denti caduti. Mi auguro che capisca la mia buona intenzione.
Scendo in giardino e gli spiego il mio semplice piano.
“Hai capito tutto? Prendi il dente e lasci i cento scellini accanto a Juma mentre dorme. Facile, eh?”
Kamau annuisce serio e si mette in tasca i soldi.
La mattina dopo vedo Juma arrampicato su una palma che raccoglie cocchi.
“Stai attento che è alta!” Gli dico.
“Tu mangia cocco buono?” Mi chiede.
“Sì grazie.”
Ne stacca uno anche per me e lo lancia di sotto. Poi scende agile e lesto.
“Mama tu sa? Fatina ieri viene!” Esulta felice.
“Davvero? Allora ha trovato la strada … brava fatina!” E gli do una carezza sulla testa riccia. Poi gli chiedo quanti soldi gli ha lasciato.
“Lei lascia me cinquanta scellini … però non prende dente, forse no piace dente bambino africano?” Mi chiede perplesso.
Cosa gli devo rispondere? Che ha un padre imbecille?
“Ma no Juma, certe volte è un po’ sbadata … ma tu conserva il tuo dente per ricordo.”
Juma sorride, poi mi informa che fra qualche notte ci riprova, chissà, magari lei torna!
Ecco, penso io, adesso sono fregata…
Fonte : Malindikenya.net
“Non ti preoccupare per il buco Juma, fra qualche giorno ti spunta quello nuovo.”
E lui ha fatto sì con la testa, lo sapeva già: non è il primo dente che perde e sa come funziona.
Gli ho detto anche che poi i denti di scorta finiscono, e lui deve starci attento e lavarseli bene, altrimenti si ritrova come suo padre che a vent’otto anni è già mezzo sdentato. E Juma si è messo a ridere di gusto.
In quel momento passava sulle scale la nuova vicina del piano di sotto, che ha affittato l’appartamento per quattro settimane. Ha notato che Juma teneva qualcosa chiuso nel pugno, si è incuriosita e gli ha chiesto di mostrarle il suo tesoro.
“Oh, ma che bel dentino! Mi raccomando, mettilo sul comodino stanotte che la fatina ti porta i soldini.” E gli ha dato un buffetto sulla guancia prima di entrare n casa con le sue borse piene di manghi e papaie.
Juma mi ha guardato perplesso: fatina? Soldi? Di che cosa parlava la vicina, mi chiedevano i suoi occhioni neri. Naturalmente si aspettava una spiegazione da parte mia. Quindi gli ho raccontato che da noi, quando un bimbo perde un dente, lo regala ad una signora buona che si chiama fata, che di notte viene a prenderselo e lascia delle monetine in cambio. Juma si è illuminato di gioia ed è scappato via col suo piccolo tesoro in mano, prima che io potessi spiegargli che la fatina non arriva fino in Kenya, perché è un po’ pigra e forse non sa nemmeno dove sia l’Africa …
Il bimbo è corso dal suo papà al cancello, e gli ha riferito le mie parole. E Kamau è venuto subito da me, eccitato dalla novità e dalla possibilità di guadagnare qualche soldo extra. Mi ha chiesto di spiegargli meglio la storia della fatina dei denti, e dal suo sguardo così attento ho capito che era meglio dirgli la verità, prima che cominciasse a cavar denti dai suoi quattro figli.
“Ascolta Kamau, è tutta una invenzione, una favola, capisci? E’ la mamma del bambino che si prende il dente e lascia la moneta. Si tratta di un piccolo premio di consolazione, ecco, tutto qui.”
Ma Kamau ha scosso la testa poco convinto. E’ normale perdere i denti, che bisogno c’è di essere consolati? Mah … questi wazungu sono davvero strani, pensava mentre si allontanava deluso.
Il piccolo Juma domani non troverà niente sul comodino e sicuramente verrà a protestare da me che i bambini bianchi sono sempre più fortunati, che è una ingiustizia. E ha ragione: ripenso alla mia fantastica infanzia in cui non mi è mancato niente e forse ho avuto troppo. Ogni anno una bicicletta nuova, belle bambole, l’ultimo modello di barbie ad ogni cambio stagione, giocattoli, libri di favole, vestitini, scarpette e accessori. Sì, sono stata una bambina mzungu privilegiata, mentre lui non ha neanche un letto, e dorme su una stuoia di palma appoggiata sul pavimento. Juma non ha niente, forse nemmeno un paio di mutande sotto quei calzoncini luridi e bucati che ha sempre addosso. Però Juma è forte e sano e passa le giornate a saltare le onde nell’oceano e ad arrampicarsi sugli alberi, ed ha qualcosa di molto prezioso: una grande creatività. E i giocattoli se li crea da solo con ciò che trova in giro. Con fili di ferro, pezzi di legno e di plastica, vecchi pneumatici, lattine e altro lui crea mille cose: barchette, pupazzi, macchinine, casette, fortini… ci sa proprio fare.
Qualche volta lo sorprendo che rovista nei nostri bidoni dell’immondizia giù in fondo al giardino nella speranza di trovare qualcosa di utile e di bello, perché si sa che i wazungu spesso buttano via cose ancora buone da usare, che spreconi. E mi fa pena e mi arrabbio con Kamau che non lo educa a stare lontano dall’immondizia.
“Kamau! Guarda che Juma è finito ancora dentro il bidone del takataka! Tiralo fuori che piglia qualche infezione!” Gli urlo dal mio balcone.
Ma lui scrolla la testa, indifferente, mi sorride senza denti e alza le spalle.
“Lui felice giocare con takataka, hakuna matata, mama.”
“Ma non è igienico!” Ribatto io.
Ma Kamau mi ignora e fischietta, e continua a sputare palline di marungi per terra e a chiacchierare con gli amici al di là del cancello dove sta di guardia.
No, non capisce il concetto di igiene, per forza, anche lui da bambino faceva la stessa cosa e probabilmente anche il figlio di Juma lo farà… io mi auguro proprio di no.
Mi viene un’idea, lo so che è sbagliata, ma per stavolta farò una eccezione. Per una notte mi trasformerò nella fatina dei denti e lascerò a Juma cento scellini. Dirò a Kamau che sarà esclusivamente per una sola volta e che non si aspetti la stessa cosa per gli altri figli e gli altri denti caduti. Mi auguro che capisca la mia buona intenzione.
Scendo in giardino e gli spiego il mio semplice piano.
“Hai capito tutto? Prendi il dente e lasci i cento scellini accanto a Juma mentre dorme. Facile, eh?”
Kamau annuisce serio e si mette in tasca i soldi.
La mattina dopo vedo Juma arrampicato su una palma che raccoglie cocchi.
“Stai attento che è alta!” Gli dico.
“Tu mangia cocco buono?” Mi chiede.
“Sì grazie.”
Ne stacca uno anche per me e lo lancia di sotto. Poi scende agile e lesto.
“Mama tu sa? Fatina ieri viene!” Esulta felice.
“Davvero? Allora ha trovato la strada … brava fatina!” E gli do una carezza sulla testa riccia. Poi gli chiedo quanti soldi gli ha lasciato.
“Lei lascia me cinquanta scellini … però non prende dente, forse no piace dente bambino africano?” Mi chiede perplesso.
Cosa gli devo rispondere? Che ha un padre imbecille?
“Ma no Juma, certe volte è un po’ sbadata … ma tu conserva il tuo dente per ricordo.”
Juma sorride, poi mi informa che fra qualche notte ci riprova, chissà, magari lei torna!
Ecco, penso io, adesso sono fregata…
Fonte : Malindikenya.net
I racconti di Claudia: 8 Askari Innamorato
I racconti di Claudia: 8 Askari Innamorato
Il mio fido askari Kamau se ne è andato dieci giorni in ferie: è tornato al suo villaggio al nord per riunirsi alla sua grande tribù.
Si è portato anche la moglie e i cinque figli; io gli ho raccomandato di stare bene attento a non fare il sesto e lui si è messo a ridere e ha scosso la testa.
“Guarda che non ti do l’aumento se ne fai un altro … hai capito?” L’ho minacciato cercando di restare seria.
“Oh mama … se Dio vuole altro bambino per Kamau … io felice, moglie felice.” E guarda devoto al cielo, alzando le braccia. Che attore melodrammatico!
“Io non penso tua moglie tanto felice.” Obietto cinica.
Ma lui declama convinto che le donne son fatte solo per fare figli, tutto qui. E pure il giardiniere che pota la siepe acconsente.
E mi vien voglia di ingranare la retro e tirarli sotto entrambi …
“Va beh Kamau, buone vacanze … e tirati fuori quel dito dal naso!”
Lui ciondola la testa e pigramente richiude il cancello alla mie spalle, avvolto nella nuvola di polvere della mia sgommata.
Alla sera, quando sono rientrata dal lavoro, ho trovato un askari più giovane, impettito dentro la sua nuova uniforme. Mi ha aperto il cancello, è scattato sull’attenti e mi ha fatto pure il saluto militare battendo i tacchi. Tra me ho pensato: ecco un vero askari!
“Jambo, come ti chiami?”
“Eduard.” E mi ha sorriso, aveva tutti i denti.
Per il momento il bravo Eduard la notte resta sveglio a vigilare il cancello, ed ogni ora fa la sua ronda su e giù per il giardino; mentre il buon vecchio Kamau spesso si concede un pisolino appollaiato dentro la siepe.
Eduard non sputacchia marungi di qua e di là e si tiene la camicia ben abbottonata fino al collo, ma cosa più importante: lui non si mette a parlottare con gli altri staff che arrivano alle sette del mattino, proprio sotto la mia finestra. E che cosa avranno mai di così importante da raccontarsi tutte le sante mattine? Mah …
Oggi sono tornata con una cassa di bottiglie d’acqua, Eduard si è subito offerto di portarmele su in casa. Quando l’ho salutato sulla soglia mi è sembrato che mi strizzasse l’occhio … no, devo essermi sbagliata, sicuramente gli è entrato qualcosa.
Più tardi sono scesa in giardino a buttare il taka taka, lui era lì.
“Posso fare domanda?”
“Certo, dimmi.”
“Tu sposata?”
Resto un attimo senza parole, poi decido di dirgli la verità e già me ne pento perché lo vedo illuminarsi di false speranze …
E il giorno dopo, nel mettere in moto la macchina, noto un rametto di buganvillea incastrato sotto il tergicristalli, e come ci è finito qui? Vedo Mungo che ride sotto i baffi e mi indica l’askari, che mi saluta con una mano e poi mi manda un bacio.
Oh mamma mia, ma che si è messo in testa adesso questo qui?
Lo ringrazio solo perché sono una persona gentile, lui si sporge un po’ dentro il finestrino e mi fa un invito.
“Giovedì io giorno libero, sai mama? Io porto te mio villaggio sul fiume, tu conosce mama e papa, mangiamo testa di capra bollita e facciamo festa, eh?”
“Ma sei matto?”
Si sporge dentro ancora un poco e mi dice a bassa voce con grande complicità:
“Io ho segreto per fare te mama tanto felice!”
“Ah sì? Ma dai … e quale sarebbe?” Quanto mai gliel’ho chiesto …
“Io avere grosso mamba nero tutto per te.”
O santo cielo mi è impazzito l’askari! Lo fulmino con uno sguardo da orco e ingrano la prima e sgommo via. E mi chiedo: ma questi uomini seducono e conquistano le loro donne sbandierando le dimensioni dei loro genitali??? O lo fanno solo con noi donne bianche?
Arrivo al lavoro e racconto l’episodio a una mia collega.
“Ma lo sai che il mio askari nuovo ci ha appena provato?”
“Anche il mio cuoco ci prova da un pezzo: ha cominciato a sfornare chapati a forma di cuore … naturalmente gli esce sempre storto.”
“Ecco, allora hanno il vizio.”
“Ma no, cercano solo di sistemarsi, lo sai che noi rappresentiamo un lasciapassare verso il benessere. Sono dei furbi.”
“Mica tanto.”
La sera torno a casa ed Eduard mi apre il cancello col suo gran sorriso e mi sussurra I LOVE YOU. Neanche gli rispondo. Salgo in casa e chiudo la porta con sette mandate, si sa mai che me lo ritrovo sul pianerottolo …
Il mattino dopo niente fiori sulla macchina, e niente askari al cancello, ma cosa è successo?
Il mio vicino mi dice che lo hanno mandato via ieri notte.
“E perché? Si era imboscato a dormire dentro la siepe di Kamau?”
“Ma no, importunava la signora Wanda, le ha fatto proposte d’amore oscene , poverina …”
“Ma chi? Wanda la vecchietta un po’ sorda e gobba in affitto al piano terra?”
“Sì sì, proprio lei.”
“Nooooo, non ci posso credere …”
“Ma come Claudia, non conosci il famoso detto che l’amore è cieco?”
Mi viene da ridere e mi sento sollevata. Per fortuna che fra tre giorni torna quel puzzone, maschilista, meraviglioso devoto buon vecchio Kamau
Fonte: Malindikenya.net
Il mio fido askari Kamau se ne è andato dieci giorni in ferie: è tornato al suo villaggio al nord per riunirsi alla sua grande tribù.
Si è portato anche la moglie e i cinque figli; io gli ho raccomandato di stare bene attento a non fare il sesto e lui si è messo a ridere e ha scosso la testa.
“Guarda che non ti do l’aumento se ne fai un altro … hai capito?” L’ho minacciato cercando di restare seria.
“Oh mama … se Dio vuole altro bambino per Kamau … io felice, moglie felice.” E guarda devoto al cielo, alzando le braccia. Che attore melodrammatico!
“Io non penso tua moglie tanto felice.” Obietto cinica.
Ma lui declama convinto che le donne son fatte solo per fare figli, tutto qui. E pure il giardiniere che pota la siepe acconsente.
E mi vien voglia di ingranare la retro e tirarli sotto entrambi …
“Va beh Kamau, buone vacanze … e tirati fuori quel dito dal naso!”
Lui ciondola la testa e pigramente richiude il cancello alla mie spalle, avvolto nella nuvola di polvere della mia sgommata.
Alla sera, quando sono rientrata dal lavoro, ho trovato un askari più giovane, impettito dentro la sua nuova uniforme. Mi ha aperto il cancello, è scattato sull’attenti e mi ha fatto pure il saluto militare battendo i tacchi. Tra me ho pensato: ecco un vero askari!
“Jambo, come ti chiami?”
“Eduard.” E mi ha sorriso, aveva tutti i denti.
Per il momento il bravo Eduard la notte resta sveglio a vigilare il cancello, ed ogni ora fa la sua ronda su e giù per il giardino; mentre il buon vecchio Kamau spesso si concede un pisolino appollaiato dentro la siepe.
Eduard non sputacchia marungi di qua e di là e si tiene la camicia ben abbottonata fino al collo, ma cosa più importante: lui non si mette a parlottare con gli altri staff che arrivano alle sette del mattino, proprio sotto la mia finestra. E che cosa avranno mai di così importante da raccontarsi tutte le sante mattine? Mah …
Oggi sono tornata con una cassa di bottiglie d’acqua, Eduard si è subito offerto di portarmele su in casa. Quando l’ho salutato sulla soglia mi è sembrato che mi strizzasse l’occhio … no, devo essermi sbagliata, sicuramente gli è entrato qualcosa.
Più tardi sono scesa in giardino a buttare il taka taka, lui era lì.
“Posso fare domanda?”
“Certo, dimmi.”
“Tu sposata?”
Resto un attimo senza parole, poi decido di dirgli la verità e già me ne pento perché lo vedo illuminarsi di false speranze …
E il giorno dopo, nel mettere in moto la macchina, noto un rametto di buganvillea incastrato sotto il tergicristalli, e come ci è finito qui? Vedo Mungo che ride sotto i baffi e mi indica l’askari, che mi saluta con una mano e poi mi manda un bacio.
Oh mamma mia, ma che si è messo in testa adesso questo qui?
Lo ringrazio solo perché sono una persona gentile, lui si sporge un po’ dentro il finestrino e mi fa un invito.
“Giovedì io giorno libero, sai mama? Io porto te mio villaggio sul fiume, tu conosce mama e papa, mangiamo testa di capra bollita e facciamo festa, eh?”
“Ma sei matto?”
Si sporge dentro ancora un poco e mi dice a bassa voce con grande complicità:
“Io ho segreto per fare te mama tanto felice!”
“Ah sì? Ma dai … e quale sarebbe?” Quanto mai gliel’ho chiesto …
“Io avere grosso mamba nero tutto per te.”
O santo cielo mi è impazzito l’askari! Lo fulmino con uno sguardo da orco e ingrano la prima e sgommo via. E mi chiedo: ma questi uomini seducono e conquistano le loro donne sbandierando le dimensioni dei loro genitali??? O lo fanno solo con noi donne bianche?
Arrivo al lavoro e racconto l’episodio a una mia collega.
“Ma lo sai che il mio askari nuovo ci ha appena provato?”
“Anche il mio cuoco ci prova da un pezzo: ha cominciato a sfornare chapati a forma di cuore … naturalmente gli esce sempre storto.”
“Ecco, allora hanno il vizio.”
“Ma no, cercano solo di sistemarsi, lo sai che noi rappresentiamo un lasciapassare verso il benessere. Sono dei furbi.”
“Mica tanto.”
La sera torno a casa ed Eduard mi apre il cancello col suo gran sorriso e mi sussurra I LOVE YOU. Neanche gli rispondo. Salgo in casa e chiudo la porta con sette mandate, si sa mai che me lo ritrovo sul pianerottolo …
Il mattino dopo niente fiori sulla macchina, e niente askari al cancello, ma cosa è successo?
Il mio vicino mi dice che lo hanno mandato via ieri notte.
“E perché? Si era imboscato a dormire dentro la siepe di Kamau?”
“Ma no, importunava la signora Wanda, le ha fatto proposte d’amore oscene , poverina …”
“Ma chi? Wanda la vecchietta un po’ sorda e gobba in affitto al piano terra?”
“Sì sì, proprio lei.”
“Nooooo, non ci posso credere …”
“Ma come Claudia, non conosci il famoso detto che l’amore è cieco?”
Mi viene da ridere e mi sento sollevata. Per fortuna che fra tre giorni torna quel puzzone, maschilista, meraviglioso devoto buon vecchio Kamau
Fonte: Malindikenya.net
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8 - Kariuki
I Racconti di Claudia / 8 - Kariuki
Ogni anno, con l’inizio della stagione lavorativa, io e il manager del personale facciamo i colloqui per l’assunzione dei nuovi praticanti per il dipartimento housekeeping. I posti liberi sono pochi, a me dispiace, perché prenderei tutti i ragazzi che se ne stanno per ore accucciati sotto il sole fuori in strada in cerca di un lavoro. Ma non si può fare: ci sono delle regole.
La prima mattina delle selezioni, fuori dalla porta di Mr. Otieno, c’era già un folto gruppo di giovani che aspettavano di essere chiamati ad entrare.
Erano arrivati presto, dai loro villaggi, tutti motivati dalla stessa cosa: la speranza di imparare una professione e di guadagnare dei soldi.
Erano allegri e loquaci, ma quando mi videro si fecero seri di colpo e ammutolirono. Si chiedevano, perplessi, cosa ci facesse lì una mzungu.
“Jambo! Kilakitu sawa sawa?” Li salutai sorridendo.
Annuirono tutti e ricambiarono il sorriso.
“Fra pochi minuti cominciamo, vi chiameremo uno alla volta. Ok?”
“Asante mama.” Rispose qualcuno.
Questi ragazzi, presi singolarmente, sono timidi e impacciati. Hanno da poco terminato gli studi e sono quasi sempre al primo colloquio di lavoro: comprendo bene il loro imbarazzo. Si mostrano educati e vengono ben vestiti: forse qualcuno si fa prestare gli abiti buoni dai parenti per fare bella impressione e avere una chance in più?
Quel giorno ne intervistammo una decina, e uno di loro mi colpì particolarmente.
Si chiamava Kariuki, era un giovane kikuyu che parlava un ottimo inglese e non era per nulla intimidito dalla mia presenza.
Gli feci le domande di rito e mi piacquero le sue risposte chiare e intelligenti. Per ultimo gli chiesi se voleva fare carriera nel dipartimento housekeeping. Kariuki scosse la testa e mi rispose che aveva altri progetti per il futuro: lui voleva diventare giornalista.
Io e mr. Otieno ci guardammo perplessi e divertiti, pensammo fosse una battuta.
“Kariuki, lo sai che qui imparerai a lavare i pavimenti, cambiare le lenzuola e pulire i bagni?” Gli chiesi con voce seria.
“Sì, lo so.”
“Otto ore al giorno tutti i giorni.”
“Certo, per adesso va bene.” Mi rispose.
Quando lo congedai ed uscì dall’ufficio, chiesi a mr. Otieno cosa ne pensasse.
“Questo ragazzo è diverso. Basta guardare la sua documentazione: l’esito dei suoi esami scolastici, ha preso A. E’ il voto più alto, di solito quelli come lui vanno dritti all’università.” Mi spiegò.
“E cosa ci fa qui allora?”
“Probabilmente non ha i soldi. Tanti ragazzi hanno le capacità, ma non hanno i mezzi per realizzarsi.”
Terminammo i colloqui una settimana dopo e convocammo i nuovi sei apprendisti: Kariuki era uno di loro.
Chiesi alla mia assistente di farmi un resoconto settimanale sul loro rendimento. Ed ogni lunedì le sue lodi erano per Kariuki, che imparava in fretta e non commetteva errori. Che sapeva ottimizzare il tempo ed era di esempio agli altri in quanto ad efficienza. Anche gli ospiti fissi dell’hotel cominciarono a prenderlo in simpatia e spesso mi dicevano che era un ragazzo sveglio e in gamba.
Kariuki si impegnò molto per tutti i tre mesi del training e fu poi premiato con l’assunzione per la stagione. Era al settimo cielo quando glielo comunicai.
“Asante sana, lavorerò tanto, metterò da parte tutti i soldi e l’anno prossimo mi iscriverò all’università.”
“La tua famiglia non è in grado di aiutarti?” Gli chiesi.
“Non ho più i genitori. Ho un fratello a Nairobi, lui forse un po’ mi aiuterà.”
Ho capito subito che non era una bugia e che ce l’avrebbe fatta, perché aveva una forza di volontà fuori dal comune e un gran cervello.
La stagione terminò, ed io a maggio salutai i ragazzi del mio team e tornai in Italia per le vacanze. Quando rientrai al lavoro a luglio li ritrovai tutti lì al loro posto, tranne Kariuki.
“Che fine ha fatto?” Chiesi a mr. Otieno.
“Quello che aveva sempre detto: è partito per Nairobi.” Mi rispose contento.
Un paio di settimane dopo ricevetti una telefonata: era lui. Mi informò che si era iscritto all’università, che viveva da suo fratello e che era felice. E poi, con grande umiltà, mi ringraziò per il lavoro che gli avevo dato: così era riuscito a realizzare il suo sogno.
“Sono felice per te. Diventerai un bravo giornalista, e io ti leggerò sul Nation, eh?”
“Certo.” Mi rispose orgoglioso.
“Maisha bora Kariuki.”
“Maisha marefu Claudia.”
Fonte: Malindikenya
Ogni anno, con l’inizio della stagione lavorativa, io e il manager del personale facciamo i colloqui per l’assunzione dei nuovi praticanti per il dipartimento housekeeping. I posti liberi sono pochi, a me dispiace, perché prenderei tutti i ragazzi che se ne stanno per ore accucciati sotto il sole fuori in strada in cerca di un lavoro. Ma non si può fare: ci sono delle regole.
La prima mattina delle selezioni, fuori dalla porta di Mr. Otieno, c’era già un folto gruppo di giovani che aspettavano di essere chiamati ad entrare.
Erano arrivati presto, dai loro villaggi, tutti motivati dalla stessa cosa: la speranza di imparare una professione e di guadagnare dei soldi.
Erano allegri e loquaci, ma quando mi videro si fecero seri di colpo e ammutolirono. Si chiedevano, perplessi, cosa ci facesse lì una mzungu.
“Jambo! Kilakitu sawa sawa?” Li salutai sorridendo.
Annuirono tutti e ricambiarono il sorriso.
“Fra pochi minuti cominciamo, vi chiameremo uno alla volta. Ok?”
“Asante mama.” Rispose qualcuno.
Questi ragazzi, presi singolarmente, sono timidi e impacciati. Hanno da poco terminato gli studi e sono quasi sempre al primo colloquio di lavoro: comprendo bene il loro imbarazzo. Si mostrano educati e vengono ben vestiti: forse qualcuno si fa prestare gli abiti buoni dai parenti per fare bella impressione e avere una chance in più?
Quel giorno ne intervistammo una decina, e uno di loro mi colpì particolarmente.
Si chiamava Kariuki, era un giovane kikuyu che parlava un ottimo inglese e non era per nulla intimidito dalla mia presenza.
Gli feci le domande di rito e mi piacquero le sue risposte chiare e intelligenti. Per ultimo gli chiesi se voleva fare carriera nel dipartimento housekeeping. Kariuki scosse la testa e mi rispose che aveva altri progetti per il futuro: lui voleva diventare giornalista.
Io e mr. Otieno ci guardammo perplessi e divertiti, pensammo fosse una battuta.
“Kariuki, lo sai che qui imparerai a lavare i pavimenti, cambiare le lenzuola e pulire i bagni?” Gli chiesi con voce seria.
“Sì, lo so.”
“Otto ore al giorno tutti i giorni.”
“Certo, per adesso va bene.” Mi rispose.
Quando lo congedai ed uscì dall’ufficio, chiesi a mr. Otieno cosa ne pensasse.
“Questo ragazzo è diverso. Basta guardare la sua documentazione: l’esito dei suoi esami scolastici, ha preso A. E’ il voto più alto, di solito quelli come lui vanno dritti all’università.” Mi spiegò.
“E cosa ci fa qui allora?”
“Probabilmente non ha i soldi. Tanti ragazzi hanno le capacità, ma non hanno i mezzi per realizzarsi.”
Terminammo i colloqui una settimana dopo e convocammo i nuovi sei apprendisti: Kariuki era uno di loro.
Chiesi alla mia assistente di farmi un resoconto settimanale sul loro rendimento. Ed ogni lunedì le sue lodi erano per Kariuki, che imparava in fretta e non commetteva errori. Che sapeva ottimizzare il tempo ed era di esempio agli altri in quanto ad efficienza. Anche gli ospiti fissi dell’hotel cominciarono a prenderlo in simpatia e spesso mi dicevano che era un ragazzo sveglio e in gamba.
Kariuki si impegnò molto per tutti i tre mesi del training e fu poi premiato con l’assunzione per la stagione. Era al settimo cielo quando glielo comunicai.
“Asante sana, lavorerò tanto, metterò da parte tutti i soldi e l’anno prossimo mi iscriverò all’università.”
“La tua famiglia non è in grado di aiutarti?” Gli chiesi.
“Non ho più i genitori. Ho un fratello a Nairobi, lui forse un po’ mi aiuterà.”
Ho capito subito che non era una bugia e che ce l’avrebbe fatta, perché aveva una forza di volontà fuori dal comune e un gran cervello.
La stagione terminò, ed io a maggio salutai i ragazzi del mio team e tornai in Italia per le vacanze. Quando rientrai al lavoro a luglio li ritrovai tutti lì al loro posto, tranne Kariuki.
“Che fine ha fatto?” Chiesi a mr. Otieno.
“Quello che aveva sempre detto: è partito per Nairobi.” Mi rispose contento.
Un paio di settimane dopo ricevetti una telefonata: era lui. Mi informò che si era iscritto all’università, che viveva da suo fratello e che era felice. E poi, con grande umiltà, mi ringraziò per il lavoro che gli avevo dato: così era riuscito a realizzare il suo sogno.
“Sono felice per te. Diventerai un bravo giornalista, e io ti leggerò sul Nation, eh?”
“Certo.” Mi rispose orgoglioso.
“Maisha bora Kariuki.”
“Maisha marefu Claudia.”
Fonte: Malindikenya
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