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Alberi della pace: Fico selvatico, ulivo, acacia…
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Alberi della pace: Fico selvatico, ulivo, acacia…
Alberi della pace: Fico selvatico, ulivo, acacia…
Nelle folte foreste che circondano il lago Vittoria cresce una pianta chiamata murembe. Gli idakho e gli isukha – due etnie del distretto di Kakamega ( Kenya) – la considerano un albero sacro. Murembe significa anche pace ed è il temine usato per scambiarsi i saluti o per aprire una conversazione con lo scopo di iniziare una nuova amicizia o di irrobustirne una già esistente. Anche nella lingua luhya – Kenya il termine pace coincide con quello dell’albero sacro.
In quasi tutti i gruppi, la gente prega sotto un albero sacro della pace, ne usa le foglie nello svolgimento di qualche rito di passaggio, o inala il fumo del suo legno durante un rituale di benedizione. In un villaggio okiek, maasai, turkana, rendille, borana (etnie del Kenya)… c’è sempre un albero della pace per onorare i legami con gli antenati: riunirsi sotto le sue fronde vuol dire assaporare quella pace che gli antenati hanno sognato per il proprio popolo e nella quale sono oggi entrati.
Nessuno oserà mai profanare un albero della pace. Lo si può tagliare soltanto per serie ragioni, e soltanto dopo averne chiesto il permesso. Le donne maasai, prima di tagliare un ramo della pianta oseki (cordia ovalis), uno dei quattro alberi sacri di questa etnia, pregano: O albero Oseki, ti preghiamo: concedici di tagliarti. Non lo facciamo per farti male, né per ferirti. Concedici il permesso di prendere un tuo ramo: è per prendere da te la pace. Questo chiediamo a te: pace per le nostre case.
Durante la grande cerimonia dell’ol-orika, o “dello sgabello”, con la quale i giovani rompono con lo stadio di guerriero per sposarsi e sistemarsi, nove uomini da poco circoncisi e quattro dei loro “padrini” hanno l’incarico di procurare un oseki. Non lo si può tagliare: lo si dovrà invece divellere dal suolo senza “ferirlo” o “offenderlo”. I riti e i gesti inerenti a questo sradicamento durano un’intera giornata. I 13 uomini sono vestiti di nero o blu scuro. I quattro padrini portano birra fermentata con miele per aspergere l’oseki, dopo averlo “abbeverato” con latte fresco. Poi cominciano a scavare, badando di non farlo cadere. A questo fine, lo puntellano con rami di ulivo selvatico, poi lo sostengono con mani “amorose” e lo adagiano “dolcemente” sul terreno, in modo che nessuno dei suoi rami “si ferisca”, rivolto verso il Monte Kenya. Portato di peso nel recinto delle mucche, le donne lo prenderanno in consegna, attribuendogli onori e cure. Tutto della pianta è usato: nulla va bruciato. Le sue foglie sono medicinali; le sue fronde tengono lontani gli spiriti cattivi; dai suoi rami si ricavano dei bastoni che saranno importanti simboli di pace. Si dice, infatti, e-luaa e-seki [“il-(mio)-bastone-di-oseki-è-steso-attraverso (il tuo sentiero)”] per annunciare l’accettazione di una tregua in una disputa o in un conflitto.
Anche gli anziani borana, nel nord del Kenya e nel sud dell’Etiopia, siedono sotto un odda, l’albero della pace, per deliberare su aspetti essenziali della pace, quali il rispetto reciproco, l’amministrazione della giustizia e i principi etici da porre alla base del vivere sociale. All’ombra del medesimo albero siede anche il consiglio di coloro che occupano il gradino più elevato del gada (il complesso sistema sociale che prevede una stratificazione per età delle gerarchie all’interno del gruppo, dei clan e dei sottoclan), per – dicono – «dare spazio e protezione alla pace», compiendo le formalità necessarie perché entrino in vigore nuove leggi in grado di preservare la pace messa in pericolo da tempi turbolenti o profondi cambiamenti sociali.
A offrire la sua rinfrescante ombra agli anziani luo è il pow, il fico selvatico: soltanto lì è lecito e giusto deliberare e rivedere leggi che governano la società, o “leggere” le stagioni e i tempi per scoprire come essi possano interessare la terra e la sua gente.
Il rispetto verso gli anziani che presiedono questi incontri è sommo, e va mostrato nel modo di salutare e di parlare, e nell’attenersi al protocollo nella scelta del posto a sedere. L’intera scena sembra creata apposta per facilitare una conversazione pacifica o una riconciliazione, a seconda del bisogno. Sotto un albero della pace non si può rifiutarsi di ascoltare, né è lecito infrangere l’ordine o rigettare la decisione presa dai “guardiani della pace”.
All’ombra degli alberi sacri si fa anche memoria, soprattutto di eventi e momenti di pace e di riconciliazione. Si tratta di un ricordare che, in un certo qual modo, “fa riaccadere” quanto è avvenuto in passato. Narrare e cantare la pace di ieri è garantire il suo permanere oggi o accelerare il suo ritorno domani. La saggezza con cui gli antenati hanno mantenuto questo sommo bene è richiamata alla mente e al cuore attraverso proverbi e massime. Questa rimembranza della pace è avvertita come sacra perché è una reale comunicazione tra i viventi e i “morti vivi”. Sacra è la terra su cui si è seduti (perché gli antenati vi si sono seduti prima di noi), e sacro è l’albero che li ha protetti e consigliati.
Qualcuno, in Occidente, si è sorpreso, quando Wangari Maathai fu insignita del Premio Nobel per la pace 2004: «È un’ambientalista, non un’eroina della pace. S’è limitata, per lo più, a piantare alberi». Nessun africano, rimasto tale, si è invece meravigliato. Piantando alberi – ne ha piantati anche di sacri – Wangari ha “raffreddato” la terra, l’ha “purificata” del troppo sangue sparso inutilmente, l’ha resa di nuova “madre benigna”, ha portato riconciliazione tra le persone e tra queste e la terra, ma ha soprattutto difeso la pace, lottando contro tutto ciò che la negava.
Fonte:MISNA
Nelle folte foreste che circondano il lago Vittoria cresce una pianta chiamata murembe. Gli idakho e gli isukha – due etnie del distretto di Kakamega ( Kenya) – la considerano un albero sacro. Murembe significa anche pace ed è il temine usato per scambiarsi i saluti o per aprire una conversazione con lo scopo di iniziare una nuova amicizia o di irrobustirne una già esistente. Anche nella lingua luhya – Kenya il termine pace coincide con quello dell’albero sacro.
In quasi tutti i gruppi, la gente prega sotto un albero sacro della pace, ne usa le foglie nello svolgimento di qualche rito di passaggio, o inala il fumo del suo legno durante un rituale di benedizione. In un villaggio okiek, maasai, turkana, rendille, borana (etnie del Kenya)… c’è sempre un albero della pace per onorare i legami con gli antenati: riunirsi sotto le sue fronde vuol dire assaporare quella pace che gli antenati hanno sognato per il proprio popolo e nella quale sono oggi entrati.
Nessuno oserà mai profanare un albero della pace. Lo si può tagliare soltanto per serie ragioni, e soltanto dopo averne chiesto il permesso. Le donne maasai, prima di tagliare un ramo della pianta oseki (cordia ovalis), uno dei quattro alberi sacri di questa etnia, pregano: O albero Oseki, ti preghiamo: concedici di tagliarti. Non lo facciamo per farti male, né per ferirti. Concedici il permesso di prendere un tuo ramo: è per prendere da te la pace. Questo chiediamo a te: pace per le nostre case.
Durante la grande cerimonia dell’ol-orika, o “dello sgabello”, con la quale i giovani rompono con lo stadio di guerriero per sposarsi e sistemarsi, nove uomini da poco circoncisi e quattro dei loro “padrini” hanno l’incarico di procurare un oseki. Non lo si può tagliare: lo si dovrà invece divellere dal suolo senza “ferirlo” o “offenderlo”. I riti e i gesti inerenti a questo sradicamento durano un’intera giornata. I 13 uomini sono vestiti di nero o blu scuro. I quattro padrini portano birra fermentata con miele per aspergere l’oseki, dopo averlo “abbeverato” con latte fresco. Poi cominciano a scavare, badando di non farlo cadere. A questo fine, lo puntellano con rami di ulivo selvatico, poi lo sostengono con mani “amorose” e lo adagiano “dolcemente” sul terreno, in modo che nessuno dei suoi rami “si ferisca”, rivolto verso il Monte Kenya. Portato di peso nel recinto delle mucche, le donne lo prenderanno in consegna, attribuendogli onori e cure. Tutto della pianta è usato: nulla va bruciato. Le sue foglie sono medicinali; le sue fronde tengono lontani gli spiriti cattivi; dai suoi rami si ricavano dei bastoni che saranno importanti simboli di pace. Si dice, infatti, e-luaa e-seki [“il-(mio)-bastone-di-oseki-è-steso-attraverso (il tuo sentiero)”] per annunciare l’accettazione di una tregua in una disputa o in un conflitto.
Anche gli anziani borana, nel nord del Kenya e nel sud dell’Etiopia, siedono sotto un odda, l’albero della pace, per deliberare su aspetti essenziali della pace, quali il rispetto reciproco, l’amministrazione della giustizia e i principi etici da porre alla base del vivere sociale. All’ombra del medesimo albero siede anche il consiglio di coloro che occupano il gradino più elevato del gada (il complesso sistema sociale che prevede una stratificazione per età delle gerarchie all’interno del gruppo, dei clan e dei sottoclan), per – dicono – «dare spazio e protezione alla pace», compiendo le formalità necessarie perché entrino in vigore nuove leggi in grado di preservare la pace messa in pericolo da tempi turbolenti o profondi cambiamenti sociali.
A offrire la sua rinfrescante ombra agli anziani luo è il pow, il fico selvatico: soltanto lì è lecito e giusto deliberare e rivedere leggi che governano la società, o “leggere” le stagioni e i tempi per scoprire come essi possano interessare la terra e la sua gente.
Il rispetto verso gli anziani che presiedono questi incontri è sommo, e va mostrato nel modo di salutare e di parlare, e nell’attenersi al protocollo nella scelta del posto a sedere. L’intera scena sembra creata apposta per facilitare una conversazione pacifica o una riconciliazione, a seconda del bisogno. Sotto un albero della pace non si può rifiutarsi di ascoltare, né è lecito infrangere l’ordine o rigettare la decisione presa dai “guardiani della pace”.
All’ombra degli alberi sacri si fa anche memoria, soprattutto di eventi e momenti di pace e di riconciliazione. Si tratta di un ricordare che, in un certo qual modo, “fa riaccadere” quanto è avvenuto in passato. Narrare e cantare la pace di ieri è garantire il suo permanere oggi o accelerare il suo ritorno domani. La saggezza con cui gli antenati hanno mantenuto questo sommo bene è richiamata alla mente e al cuore attraverso proverbi e massime. Questa rimembranza della pace è avvertita come sacra perché è una reale comunicazione tra i viventi e i “morti vivi”. Sacra è la terra su cui si è seduti (perché gli antenati vi si sono seduti prima di noi), e sacro è l’albero che li ha protetti e consigliati.
Qualcuno, in Occidente, si è sorpreso, quando Wangari Maathai fu insignita del Premio Nobel per la pace 2004: «È un’ambientalista, non un’eroina della pace. S’è limitata, per lo più, a piantare alberi». Nessun africano, rimasto tale, si è invece meravigliato. Piantando alberi – ne ha piantati anche di sacri – Wangari ha “raffreddato” la terra, l’ha “purificata” del troppo sangue sparso inutilmente, l’ha resa di nuova “madre benigna”, ha portato riconciliazione tra le persone e tra queste e la terra, ma ha soprattutto difeso la pace, lottando contro tutto ciò che la negava.
Fonte:MISNA
fio- Sostenitore
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