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Messaggio Da fio Ven Set 02, 2011 9:22 am

REPORTAGE
Somalia, l'odissea infinita dei profughi

Amina è sfinita, arranca come una bestia agonizzante. Da lontano due operatori dell’Unicef le corrono incontro. Alla loro vista lei inaspettatamente accelera il passo sollevando la sabbia rossastra su cui dardeggia un sole spietato. Avvolto in un cencio c’è Osman, un mucchio di ossicini che non si muovono più. Il piccolo profugo ha sei mesi. Forse gli ultimi della sua vita.

A Dollow ogni mattina è così. I rifugiati arrivano a piedi dopo giorni di marcia, in fuga da villaggi senza un domani. Alcuni si fermano da questa parte del fiumiciattolo che segna il confine con l’Etiopia. Altri proseguono ancora per tre chilometri, entrando nei campi etiope di Dollo Ado.

Dollow era una roccaforte dei miliziani fondamentalisti, quasi 500 chilometri a ovest di Mogadiscio. Negli ultimi giorni, però, al-Shabaab ha lasciato in pace profughi e convogli umanitari. Tanto a torturarli ci pensano il deserto somalo e le sue sadiche insidie. Per la verità gli shabaab, o ciò che resta di alcune loro fazioni, si stanno riciclando. A Dollow fanno finta di non riconoscerli quando a bordo dei fuoristrada attraversano la via del mercato. Sanno tutti che quando una pista polverosa viene bloccata da un tronco d’albero, è perché gli shabaab, "i giovani", pretendono un "pedaggio".

Hamed Hassan ha 20 anni e nessuna speranza. «La Somalia non cambierà mai. I politici mentono, non c’è futuro». Per alcuni mesi era stato arruolato forzatamente in una milizia fondamentalista. «Non ho mai sparato – assicura – né ucciso nessuno. Loro mi ripetevano che la Somalia ci appartiene, e che il governo di Mogadiscio non conta nulla, perché a comandare sono gli infedeli, gli americani e i loro amici sauditi». Hamed, che l’inglese lo parla proprio perché un giorno vorrebbe vivere in America, non ha mai ceduto ai lavaggi del cervello. Fino a quando un giorno è riuscito a disertare. «Dal mio villaggio – racconta – siamo partiti in venti. Siamo arrivati in dodici. Alcuni vecchi sono morti di caldo e di sete». Una madre aveva quattro bambini piccoli, due gli si sono spenti tra le braccia. «Non abbiamo avuto tempo per seppellirli bene. Troppa la paura che gli shabaab potessero raggiungerci. Mentre ci allontanavamo abbiamo visto un branco di iene lanciarsi verso i corpicini».

Come molte altre, anche Amina era in compagnia di sole donne. A casa hanno lasciato i mariti e i figli adolescenti, impegnati a salvare il bestiame o arruolati in una qualche milizia. I signori della guerra sono l’unico ufficio di collocamento che a Mogadiscio non ha mai chiuso. Alcune fuggiasche hanno spiegato che il bestiame può salvare la famiglia. I ribelli filo-qaedisti impongono ai somali di contribuire in qualche modo alla causa antigovernativa. Regalare agli shabaab il bestiame può bastare a evitare l’arruolamento forzato.

Il numero dei rifugiati nei quattro campi di Dollo Ado ha ormai superato i 120 mila. Quasi 80 mila somali sono arrivati solo quest’anno, in gran parte tra giugno e luglio. Il nuovo esodo ha indotto l’Acnur e il governo etiopico ad aprire altri due insediamenti da ventimila posti. Eppure nell’ultima settimana vi è stato un significativo calo degli afflussi: dai 2 mila si è scesi ai circa 300 al giorno. E non è una buona notizia. Gli accessi alla regione sono presidiati dalla milizie fondamentaliste che stanno costringendo le colonne di fuggiaschi a ritornare nelle loro case, dove ad attenderli c’è la carestia e altre minacce dei militanti. Chiuse le vie di terra, non resta che tentare la traversata del golfo di Aden, verso le coste dello Yemen. I contrabbandieri hanno fiutato l’affare, così hanno messo in moto una flotta di barcacce: con il viaggio di andata scaricano carne umana, con quello di ritorno merce di contrabbando.

L’Etiopia ospita complessivamente oltre 260 mila rifugiati, di cui circa 180 mila somali, 50 mila eritrei e 26 mila sudanesi. Lo stato di salute di quanti arrivano a Dollow e Dollo Ado continua a essere precario. Una micidiale combinazione di denutrizione e morbillo sta falcidiando i bimbi dei campi. Adrian Edwards, portavoce dell’Acnur, spiega che il morbillo è il principale sospettato per la morte di 11 bambini. D’accordo con i genitori, tutti coloro che hanno meno di 15 anni di età vengono vaccinati per scongiurare una epidemia letale.

Non lontano da Dollow passano le piste che si dirigono verso l’estremo sud somalo. L’addio alla propria terra i profughi diretti in Kenia solitamente lo sospirano da Dobley, ultima cittadina somala prima del confine. Da qui Mogadiscio è un incubo, il Kenya un miraggio. Adnan Dassir Hassen è un po’ il sindaco e un po’ il capotribù. Amministra il remoto villaggio di case basse e scalcinate. Toccherebbe a lui smistare in qualche modo le dozzine di carovane stipate su camion, oppure in arrivo dopo giorni di marcia.

L’afflusso di esseri umani sopravvissuti alla fame e ai perigli dell’avventuroso tragitto per Hassan e la sua gente è però impossibile da governare. «Sono nostri connazionali, hanno bisogno di cibo e medicine, ma non ne abbiamo neanche per noi». Più che a riacquistare energie, raggiungere Dobley serve a ritrovare la speranza. Il villaggio, che gli shabaab hanno salutato quasi demolendolo a colpi di mortaio poco prima della tutt’altro che rassicurante "ritirata strategica", è perlustrato notte e giorno dai militari del governo transitorio. Quanto basta per potersi fermare almeno una notte senza temere la rincorsa di banditi, di predoni o di bande di miliziani allo sbando. Poi la colonna di assetati scenderà per almeno tre giorni nel girone infernale che solo ai più forti e ai più fortunati permetterà di vederlo davvero il confine keniota, le casacche azzurre dell’Onu e una scodella finalmente piena.

«Facciamo il possibile per dar loro qualcosa da mangiare e da bere – va ripetendo il sindaco Adnan Dassir Hassen. – Non mi piace vedere somali andar via così, proprio adesso che gli shabaab sono fuggiti. Ma restare vuol dire solo morire».

Anche dentro alle tende di Dadaab c’è chi è scappato non per fame, ma per non finire costretto a unirsi ad al-Shabaab, insieme a chi dalle colonne di fondamentalisti invece è riuscito a fuggire. Dadaab è da vent’anni la terra promessa dell’esodo somalo. Nei tre campi di Dagahaley, Hagadera e Ifo, si contano quasi mezzo milione di rifugiati. Entro la fine dell’anno potrebbero raddoppiare. La tendopoli si estende per un’area vasta quanto Milano. La vita non è facile e non c’è posto per tutti. Si calcola che oltre 50 mila persone vivano sparpagliate fuori dal perimetro. Esiliati due volte: cacciati dalla propria terra e fuoriusciti dalla giurisdizione delle agenzie Onu. Alla mercé di qualunque balordo. Quando varcano il confine, i profughi vengono accolti da operatori Onu o dai volontari delle Ong. Ricevono le prime cure, un paio di ciabatte, qualche indumento, un sorso d’acqua, biscotti energetici e un pasto caldo.

Ogni volta la stessa domanda: «Quando potremo tornare?». La risposta è sempre uguale, da vent’anni: «Insciallah», quando Dio vorrà.
Fonte: L'Avvenire - Nello scavo
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