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Messaggio Da fio Mer Mar 16, 2011 5:07 pm

KENYA, DAI RIFIUTI UN FORNELLO PER KIBERA

Nairobi, 16 mar. - Un fornello riscaldato con il fuoco prodotto dalla combustione dei rifiuti ha cambiato la vita della comunita' di Kibera, una delle piu' vaste baraccopoli alla periferia di Nairobi. Ushiriki Wa Safi, un'organizzazione locale impegnata nella raccolta dei rifiuti e dell'acqua sporca, ha creato un sistema in grado di trasformare la spazzatura in energia. "Con questo progetto contribuiamo a tenere pulito l'ambiente", ha spiegato il direttore del progetto, Bernand Asanya, "e permettiamo agli abitanti del villaggio di Kibera di utilizzare un servizio indispensabile in cambio di una piccola somma di denaro". Per mantenere il fuoco sempre acceso si utilizza una quantita' minima di diesel che altrimenti andrebbe gettata con ulteriore danno per l'ambiente.
L'entusiasmo della comunita' e' grande: "Ci ha cambiato la vita: ora possiamo cucinare quello che vogliamo e, mentre aspettiamo, possiamo anche fare una doccia nel bagno accanto", ha raccontato Nora Kaseu, abitante di Kibera..
Fonte: AGIAFRO
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Messaggio Da Federica Mar Nov 20, 2012 7:10 pm

Dal Kenya alla Colombia, dove i maestri del riciclo vivono in discarica

L’esempio della bidonville di Kibera, che ha trasformato l’immondizia in una risorsa ecologica e la storia degli indios Arhuacos, nella Sierra Novada: sette ore a dorso di mulo per portare sacchi di rifiuti all’impianto per differenziarli

lorenzo cairoli.
E’ incredibile che dai luoghi più impervi o più famigerati del nostro pianeta arrivino esempi concreti di come vivere meglio rispettando l’ambiente.

Kibera è la madre di tutte le bidonville. Bambini che campano di sola colla, la più alta concentrazione di malati di HIV di tutto il Kenya, furti, stupri, omicidi, uno scenario apocalittico alle porte di Nairobi. Eppure nell’aprile del 2008 un’azienda kenyana, la “Green Dreams”, lanciò una sfida ai confini della realtà: trasformare le discariche di Kibera in fattorie biologiche. In tre mesi di durissimo lavoro il miracolo si realizzò e il 29 luglio le trenta famiglie coinvolte nel progetto iniziarono a vendere la loro verdura biologica.

Alla fine del 2008, invece, al “World Architecture Festival” di Barcellona, la cucina ecologica della comunità di Kibera ottenne una menzione speciale nella categoria “Energy, Waste and Recycling”. E il mondo applaudì ammirato e incredulo. Il Kenya arabescato da Hemingway, dalla Blixen, da Evelyn Waugh è a rischio, la sua aria è inquinata dal carbone usato per riscaldare e cucinare in tutti gli ospedali e in tutte le scuole del paese, la plastica colonizza implacabile sorgenti, cascate, laghi, fiumi, torrenti, boschi, parchi, savane. L’ecosistema del paese è malato, e Kibera, che è nata dal degrado, lancia al paese un messaggio: liberariamoci dalla schiavitù del carbone, dalla dipendenza della legna, tutelando così la sopravvivenza delle nostre foreste e impariamo a cucinare riciclando l’immondizia.

L’immondizia che brucia nel grande forno di Kibera genera il calore necessario per sterilizzare l’acqua e cucinare nei forni. Plastica, residui alimentari, vecchi vestiti. Ogni rifiuto è ben accetto perchè il forno di Kibera bruciando fino a 930 gradi F. toglie tossicità agli inquinanti più pericolosi. Un sacco di kipapu (di spazzatura) equivale a un’ora di tempo di cottura sulla stufa. La cucina di Kibera non ha eguali al mondo e costa circa diecimila dollari. Un affare se considerate che oltre a cucinare, a sterilizzare l’acqua, smaltisce tonnellate di rifiuti. Immaginate se carceri, ospedali, scuole, campi di sfollati e tutte le baraccopoli del mondo seguissero il suo esempio.
Dall’altra parte del mondo, in Choco, regione della Colombia, ecologia, biodiversità, ecosistemi si insegnano ai bambini nelle scuole come da noi si fa con le tabelline nella speranza che un giorno difendano il loro paradiso da chi lo considera solo terra di saccheggio. Peccato che le nobili intenzioni e la didattica facciano a pugni con la dura realtà del vivere quotidiano. Le miniere legali, illegali, artigianali e semi-industriali costituiscono l’ossatura dell’economia chocoana. Condoto, Istmina, Andagoya, senza miniere e minatori probabilmente non esisterebbero ma il prezzo che devono pagare all’ambiente è spaventoso. Le miniere quando sono libere di eludere qualsiasi regola fanno tabula rasa di tutto. Devastano gli ecosistemi a rischio, le risorse idriche, appestano col mercurio l’acqua, l’aria, i terreni, inquinano con olii minerari il suolo, stravolgono paesaggi, costringendo la fauna terrestre, gli uccelli e la fauna ittica a migrare, pena l’estinzione. E se questo non bastasse aggiungiamoci la spoliazione della selva per predare legname pregiato e l’ecocidio della fauna ittica sulla costa. Dalla pesca artigianale si è passati alla pesca con cianuro e con esplosivo. Si va a sottocosta con reti gigantesche, grandi come otto campi da football.

Nel dipartimento di Cesar, culla della musica vallenata, vivono gli indios arhuacos. Circa cinque fa anni gli arhuacos di Gun Arawun, un pueblito ai confini con la Sierra Nevada, si accorsero che l’acqua delle loro cascate e la frutta che cresceva nei loro orti non aveva più lo stesso sapore. Tutto aveva un sapore diverso. Sgradevole, addirittura nauseante. Il sapore tossico della spazzatura. Guardandosi intorno, scoprirono che la spazzatura aveva infestato le loro terre. A poco a poco. Silenziosamente. Materiali e alimenti portati dai turisti ma anche comprati e consumati nelle stesse comunità indios. Come la plastica, il micidiale tetrapak, lattine, cartone, vetro, pile, soprattutto pile a bottone, utilizzate per calcolatrici, apparecchi acustici, orologi, macchine fotografiche. Quando si scaricano, sia che finiscano in un inceneritore o in una discarica, rappresentano un flagello ambientale per la quantità di mercurio liquido che contengono. Una sola pila di queste può contaminare 600 mila litri di acqua. Per questo i mercati europei e statunitensi da tempo ne hanno vietato la vendita.

Ma la Colombia, come l’eternit insegna, è un paese di eclatanti contraddizioni . Fierissima delle sue biodiversità, pasionaria affinchè l’hicotea non sia più una pietanza pasquale, capace di struggersi persino per il destino degli ippopotami di Pablo Escobar, non muove un ciglio se le miniere e il mercurio le avvelenano i fiumi, se le multinazionali le spogliano le foreste o se la lobby dell’eternit le regala cancro in quantità industriale coi suoi tetti apparentemente innocui. Se il colombiano, a volte, è di una remissività che lascia senza parole, l’indio arhuaco non getta mai la spugna. Così, una volta individuata la causa dei suoi problemi, è passato all’azione. Tutte le notti un gruppo di indios “riciclatori” lascia il villaggio alla volta del centro raccolta rifiuti di Sabana Crespo. E’ un lungo viaggio a dorso di mulo. Sette ore, attraversando aree un tempo feudo di paramilitari e guerriglieri.

All’inizio riciclare l’immondizia era una roulette russa. Quando i paramilitari frugavano nei sacchi pensavano d’essere stati presi in giro e si infuriavano perchè nessuno rischia la vita per smaltire rifiuti, e di notte poi. E i primi tempi qualche indios ci rimise la vita. Ma poi gli stessi paramilitari si arresero all’evidenza. Quando al centro di raccolta di Sabana Crespo si arriva a 300 sacchi di spazzatura si chiama un camion della Cooperativa de Recicladores perchè trasporti tutto in una discarica di Valledupar. Il centro raccolta di Sabana Crespo fa parte del progetto Sierra Viva, creato due anni fa dalla Confederación Indígena Tayrona, la Corporación Horizontes, Tetra Pak e più recentemente dalla Fundación Natura, per bonificare la Sierra Nevada e le aree limitrofe dall’inquinamento. Il sogno, o meglio, l’obiettivo, ripulire la Sierra da 100.000 chili di residui solidi, a una media di quattro tonnellate e mezzo al giorno
Fonte: www.lastampa.it
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