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Il nuovo Kenya: un modello per l'Africa?
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Il nuovo Kenya: un modello per l'Africa?
Il nuovo Kenya: un modello per l'Africa?
Telefoni cellulari, twitter, email, web – e una nuova costituzione più moderna e liberale. E’ il ritratto ancora fresco del Kenya 2010, emancipato con le sue sole forze dai barbari colonialismi culturali che stabilivano l’equazione Africa uguale savana uguale turismo uguale sottosviluppo. La forte vittoria del«sì», 68,5%, al referendum popolare per una nuova costituzione, lo scorso 4 agosto, non è solo un evento storico per il Kenya. E’ il passaggio conclusivo di una lotta civile e politica iniziata molto prima. Era il 2007 quando al presidente uscente Mwai Kibaki bastò un fin troppo sottile margine di vantaggio, circa il 2,5%, per auto-proclamarsi vincitore delle elezioni presidenziali del 27 dicembre combattute essenzialmente contro il leader dell’opposizione Raila Odinga. Ma questa frettolosa incoronazione non poteva dileguare i legittimi sospetti di diffusi brogli. La rabbia popolare fu la miccia che fece esplodere gravi tumulti in tutto il paese, fomentati dalla connotazione fortemente etnica del voto. La democrazia elettorale si inserisce, minuscolo tassello, in un mosaico di conflitti etnici ancestrali. Il Kenya festeggiava i primi 45 anni di indipendenza nel sangue delle rivalità antiche e nella crisi delle giovani istituzioni politiche. Solo dopo due mesi di scontri e oltre 800 morti, con la mediazione dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, le due fazioni in lotta stipularono un patto per condividere entrambi il potere in una specie di governo di unità nazionale. Il patto è chiaro: Kibaki presidente e Odinga primo ministro di un gabinetto diviso a metà tra partito del presidente e partito del premier. Ma il nodo attorno al quale si aggrovigliavano tutte le questioni politiche era ben più grande. Era la riforma di una costituzione che costituiva il principale focolaio di un sistema politico corrotto, inefficiente e fragile di fronte alle pressioni di un «uomo forte» come aveva dimostrato l’ascesa di Daniel arap Moi nel 1982.
Nel 2005 era fallito il referendum popolare per una riforma considerata troppo timida e perciò inutile. Fu l’inizio del declino per il presidente Kibaki e le sue politiche riformiste. Dopo il patto del 2008 per il governo di unità nazionale, l’opposizione ha ripreso il progetto della riforma riuscendo in parlamento ad approvare nel novembre 2009 un testo più coraggioso. La temperatura dello scontro politico tornò ad alzarsi bruscamente e a dividere gli schieramenti tra fautori delle riforme e difensori dello status quo. La posta in ballo era forte: meno poteri al presidente, più controlli sulla burocrazia, lotta alla corruzione. «E’ il nostro turno di mangiare» – è l’ottimo titolo per il libro-inchiesta della giornalista Michaela Wrong: non è altro che la vicenda tragica di John Githongo, colui che avrebbe dovuto estirpare la corruzione dallo stato salvo scoprire che era proprio lo stato il principale artefice e manovratore di colossali fiumi di denaro sporco. E’ qui che entrano in gioco i nuovi media: il pericolo di brogli, come alle elezioni presidenziali del 2007, impone una serrata sorveglianza sulle operazioni di voto. Come? Sollecitando i singoli elettori, durante il voto, a denunciare qualunque caso sospetto attraverso un sms, un’email, un tweet. Così è nata Uchaguzi, che vuol dire «decisione», una piattaforma online per raccogliere tutte queste segnalazioni per trasmetterle alle autorità e procedere a rapide verifiche. Per quanto insolito possa apparire, il Kenya è tra i più attivi online. Perciò usare cellulari ed email è già un’abitudine sociale. E’ stato il meccanismo più trasparente e partecipativo per controllare il voto senza scatenare conflitti. L’incontro tra tecnologia e impegno civile è stato un’arma letale contro gli oligarchi della corruzione. I «tamburi africani» del romanzo di Lennart Hagerfors adesso raccontano il nuovo futuro del Kenya. Web e politica: è la lezione di Obama, che peraltro ha origini keniote. Fuori da retoriche terzomondiste e ideologie neocoloniali, il Kenya può diventare un polo attrattore per stabilizzare il corno d’Africa, tra Uganda, Tanzania, Somalia e Sudan – senza guerre o lotte tra clan. Sarebbe la prima, vera rivoluzione di successo in Africa.
Fonte: Ragionpolitica.it
Telefoni cellulari, twitter, email, web – e una nuova costituzione più moderna e liberale. E’ il ritratto ancora fresco del Kenya 2010, emancipato con le sue sole forze dai barbari colonialismi culturali che stabilivano l’equazione Africa uguale savana uguale turismo uguale sottosviluppo. La forte vittoria del«sì», 68,5%, al referendum popolare per una nuova costituzione, lo scorso 4 agosto, non è solo un evento storico per il Kenya. E’ il passaggio conclusivo di una lotta civile e politica iniziata molto prima. Era il 2007 quando al presidente uscente Mwai Kibaki bastò un fin troppo sottile margine di vantaggio, circa il 2,5%, per auto-proclamarsi vincitore delle elezioni presidenziali del 27 dicembre combattute essenzialmente contro il leader dell’opposizione Raila Odinga. Ma questa frettolosa incoronazione non poteva dileguare i legittimi sospetti di diffusi brogli. La rabbia popolare fu la miccia che fece esplodere gravi tumulti in tutto il paese, fomentati dalla connotazione fortemente etnica del voto. La democrazia elettorale si inserisce, minuscolo tassello, in un mosaico di conflitti etnici ancestrali. Il Kenya festeggiava i primi 45 anni di indipendenza nel sangue delle rivalità antiche e nella crisi delle giovani istituzioni politiche. Solo dopo due mesi di scontri e oltre 800 morti, con la mediazione dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, le due fazioni in lotta stipularono un patto per condividere entrambi il potere in una specie di governo di unità nazionale. Il patto è chiaro: Kibaki presidente e Odinga primo ministro di un gabinetto diviso a metà tra partito del presidente e partito del premier. Ma il nodo attorno al quale si aggrovigliavano tutte le questioni politiche era ben più grande. Era la riforma di una costituzione che costituiva il principale focolaio di un sistema politico corrotto, inefficiente e fragile di fronte alle pressioni di un «uomo forte» come aveva dimostrato l’ascesa di Daniel arap Moi nel 1982.
Nel 2005 era fallito il referendum popolare per una riforma considerata troppo timida e perciò inutile. Fu l’inizio del declino per il presidente Kibaki e le sue politiche riformiste. Dopo il patto del 2008 per il governo di unità nazionale, l’opposizione ha ripreso il progetto della riforma riuscendo in parlamento ad approvare nel novembre 2009 un testo più coraggioso. La temperatura dello scontro politico tornò ad alzarsi bruscamente e a dividere gli schieramenti tra fautori delle riforme e difensori dello status quo. La posta in ballo era forte: meno poteri al presidente, più controlli sulla burocrazia, lotta alla corruzione. «E’ il nostro turno di mangiare» – è l’ottimo titolo per il libro-inchiesta della giornalista Michaela Wrong: non è altro che la vicenda tragica di John Githongo, colui che avrebbe dovuto estirpare la corruzione dallo stato salvo scoprire che era proprio lo stato il principale artefice e manovratore di colossali fiumi di denaro sporco. E’ qui che entrano in gioco i nuovi media: il pericolo di brogli, come alle elezioni presidenziali del 2007, impone una serrata sorveglianza sulle operazioni di voto. Come? Sollecitando i singoli elettori, durante il voto, a denunciare qualunque caso sospetto attraverso un sms, un’email, un tweet. Così è nata Uchaguzi, che vuol dire «decisione», una piattaforma online per raccogliere tutte queste segnalazioni per trasmetterle alle autorità e procedere a rapide verifiche. Per quanto insolito possa apparire, il Kenya è tra i più attivi online. Perciò usare cellulari ed email è già un’abitudine sociale. E’ stato il meccanismo più trasparente e partecipativo per controllare il voto senza scatenare conflitti. L’incontro tra tecnologia e impegno civile è stato un’arma letale contro gli oligarchi della corruzione. I «tamburi africani» del romanzo di Lennart Hagerfors adesso raccontano il nuovo futuro del Kenya. Web e politica: è la lezione di Obama, che peraltro ha origini keniote. Fuori da retoriche terzomondiste e ideologie neocoloniali, il Kenya può diventare un polo attrattore per stabilizzare il corno d’Africa, tra Uganda, Tanzania, Somalia e Sudan – senza guerre o lotte tra clan. Sarebbe la prima, vera rivoluzione di successo in Africa.
Fonte: Ragionpolitica.it
dolcemagic- Sostenitore
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Data d'iscrizione : 23.10.09
Età : 51
Località : Verbania ( lago Maggiore )!!!
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