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Kenya: abuso di protezione.
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Kenya: abuso di protezione.
Kenya: abuso di protezione.
Martedì 22 Giugno 2010 23:00
di Eugenio Roscini Vitali
Per le donne e le ragazze somale il confine con il Kenya dovrebbe rappresentare la porta verso la salvezza, una via di fuga dalle barbarie della guerra e dalle violenze del fondamentalismo; per molte di loro l’ingresso in Kenya diventa invece una tragedia nella tragedia, un’esperienza allucinante fatta di minacce e di abusi. In un report di 99 pagine, intitolato “Benvenuti in Kenya”, abusi della polizia contro i rifugiati somali”, Human Rights Watch (HRW) denuncia gli atti compiuti dalle autorità keniote a danno di coloro che, in fuga dalla Somalia, cercano di raggiungere i grandi campi profughi di Dadaab: Hagadera, Ifo e Dagahaley.
Secondo i dati diffusi dalle Nazione Unite gli sfollati presenti in Somalia sono 1,3 milioni, 370 mila dei quali ospitati nel sovraffollato corridoio di Afgooye; 170 mila sono quelli che “in tempi migliori” hanno attraversato il Golfo di Aden e che hanno trovato “rifugio” in Yemen. In Kenya è presente più della metà dei 570 mila somali che dalla caduta del regime di Siad Barre (1991) ad oggi sono riusciti a lasciare il Paese: i tre campi di Dadaab ospitano circa 280 mila profughi, il 97% dei quali di origine somala.
Estorsioni, arresti arbitrari, detenzioni illegali ed un diffuso uso della violenza; sono queste le storie raccontate da HRW; uomini, donne e bambini che chiedono asilo e che in molti casi trovano una violenza ancor più feroce di quella che si sono lasciati alle spalle. Nel rapporto diffuso la scorsa settimana, l’organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani parla di un diffuso uso di procedimenti giudiziari illegittimi e di un racket di estorsioni che si estende per quasi 200 chilometri, dal centro di confine di Liboi fino a Dadaab e Garissa.
Pestaggi e fustigazioni, deportazioni illegali e decine di migliaia di persone respinte oltre frontiera perché non hanno sufficiente denaro per pagare la propria salvezza. Condizioni di vita inumane che si ripetono anche all’interno dei campi dove i più deboli, soprattutto le giovani ragazze, devono fare i conti con la violenza messa in atto dalla popolazione locale e dagli stessi rifugiati o con la prepotenza della polizia, che spesso chiude un occhio anche di fronte alle violenze sessuali. Le vittime sono infatti convinte che le autorità ignorano le loro denunce al solo scopo di proteggere gli aggressori che, corrompendo la polizia, vengono quasi sempre rilasciati.
Tra i 40.000 somali che nei primi quattro mesi del 2010 si stima abbiano cercato di attraversare il confine con il Kenya, si sono registrati decine di casi di estorsione e di soprusi; chi non è stato in grado di pagare è stato respinto o picchiato e incarcerato con la falsa accusa di ingresso e presenza illegale in territorio keniota. Per raggiungere i campi di Dadaab i profughi sono quindi spesso costretti ad usare sentieri secondari, lontani dalle strade principale, ma questo li espone alle aggressioni e agli assalti della criminalità comune che, oltre a rubare il poco denaro in loro possesso, si lascia andare ad atti di crudeltà e barbarie che non risparmiano le ragazze e le donne più giovani.
“Welcome to Kenya” sostiene che, contro ogni norma del diritto internazionale, le autorità sottopongono i rifugiati a norme restrittive rigidissime e peraltro ingiustificate. Nonostante non ci siano problemi legati alla sicurezza nazionale o alla salute pubblica, la stragrande maggioranza dei somali registrati nei sovraffollati campi di Hagadera, Ifo e Dagahaley non può infatti allontanarsi dalle tendopoli e i pochi permessi speciali concessi dal governo sono rilasciati per recarsi a Nairobi per motivi medici o di studio. Tra i 300.000 rifugiati presenti a Dadaab, nel 2009 solo in 6.000 hanno potuto lasciare i campi regolarmente; chi viaggia sprovvisto del regolare permesso viene arrestato e, se non ha niente da offrire, viene tradotto a Garissa, dove viene multato o incarcerato.
A far si che si potesse assistere ad un tale scempio e che la tragedia di un popolo potesse diventare ancora una volta una grande macchina per fare soldi, hanno certamente contribuito le decisioni del governo keniota, che nel 2007 ha chiuso la frontiera con la Somalia e il centro di transito di Liboi, un posto di primo rifugio gestito dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) dove si stima siano passati centinaia di migliaia di somali.
Dal 2007, per attraversare il confine, i profughi si sono perciò dovuti affidare alla clandestinità e la polizia ha iniziato a sfruttare questa nuova condizione, minacciandoli con arresti ed espulsioni per estorcergli denaro. Nonostante il diritto internazionale proibisca la deportazione e il respingimento forzato dei rifugiati, per ordinarne l’espulsione o l’arresto dei malcapitati le autorità keniote sono addirittura ricorse all’accusa di terrorismo o di appartenenza al gruppo integralista islamico Al-Shabaab. In realtà, secondo il Kenya Refugee Act, i profughi dovrebbero essere registrarsi e, indipendentemente dal modo in cui sono entrati nel Paese, dovrebbero ottenere asilo ed assistenza.
Dopo anni di guerra civile, carestie e disastri naturali, in Somalia la situazione è diventata insostenibile. La malnutrizione acuta colpisce il 17% della popolazione e il tasso di mortalità infantile è tra i più alti del mondo, con 225 bambini morti per 1000 nati vivi. Meno del 30% della popolazione ha accesso all’acqua potabile e questo influisce in modo determinante sulle cause principali di morte che, oltre alla guerra, sono la dissenteria, le infezioni respiratorie a la malaria. Tra i profughi di Dadaab le cose non vanno meglio: Hagadera, Ifo e Dagahaley ospitano il triplo della loro capienza massima e molti rifugiati vivono in una situazione di estrema precarietà, tra violenze e soprusi; uno scandalo che si nutre anche del complice silenzio della comunità internazionale.
Fonte: Altrenotizie
Martedì 22 Giugno 2010 23:00
di Eugenio Roscini Vitali
Per le donne e le ragazze somale il confine con il Kenya dovrebbe rappresentare la porta verso la salvezza, una via di fuga dalle barbarie della guerra e dalle violenze del fondamentalismo; per molte di loro l’ingresso in Kenya diventa invece una tragedia nella tragedia, un’esperienza allucinante fatta di minacce e di abusi. In un report di 99 pagine, intitolato “Benvenuti in Kenya”, abusi della polizia contro i rifugiati somali”, Human Rights Watch (HRW) denuncia gli atti compiuti dalle autorità keniote a danno di coloro che, in fuga dalla Somalia, cercano di raggiungere i grandi campi profughi di Dadaab: Hagadera, Ifo e Dagahaley.
Secondo i dati diffusi dalle Nazione Unite gli sfollati presenti in Somalia sono 1,3 milioni, 370 mila dei quali ospitati nel sovraffollato corridoio di Afgooye; 170 mila sono quelli che “in tempi migliori” hanno attraversato il Golfo di Aden e che hanno trovato “rifugio” in Yemen. In Kenya è presente più della metà dei 570 mila somali che dalla caduta del regime di Siad Barre (1991) ad oggi sono riusciti a lasciare il Paese: i tre campi di Dadaab ospitano circa 280 mila profughi, il 97% dei quali di origine somala.
Estorsioni, arresti arbitrari, detenzioni illegali ed un diffuso uso della violenza; sono queste le storie raccontate da HRW; uomini, donne e bambini che chiedono asilo e che in molti casi trovano una violenza ancor più feroce di quella che si sono lasciati alle spalle. Nel rapporto diffuso la scorsa settimana, l’organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani parla di un diffuso uso di procedimenti giudiziari illegittimi e di un racket di estorsioni che si estende per quasi 200 chilometri, dal centro di confine di Liboi fino a Dadaab e Garissa.
Pestaggi e fustigazioni, deportazioni illegali e decine di migliaia di persone respinte oltre frontiera perché non hanno sufficiente denaro per pagare la propria salvezza. Condizioni di vita inumane che si ripetono anche all’interno dei campi dove i più deboli, soprattutto le giovani ragazze, devono fare i conti con la violenza messa in atto dalla popolazione locale e dagli stessi rifugiati o con la prepotenza della polizia, che spesso chiude un occhio anche di fronte alle violenze sessuali. Le vittime sono infatti convinte che le autorità ignorano le loro denunce al solo scopo di proteggere gli aggressori che, corrompendo la polizia, vengono quasi sempre rilasciati.
Tra i 40.000 somali che nei primi quattro mesi del 2010 si stima abbiano cercato di attraversare il confine con il Kenya, si sono registrati decine di casi di estorsione e di soprusi; chi non è stato in grado di pagare è stato respinto o picchiato e incarcerato con la falsa accusa di ingresso e presenza illegale in territorio keniota. Per raggiungere i campi di Dadaab i profughi sono quindi spesso costretti ad usare sentieri secondari, lontani dalle strade principale, ma questo li espone alle aggressioni e agli assalti della criminalità comune che, oltre a rubare il poco denaro in loro possesso, si lascia andare ad atti di crudeltà e barbarie che non risparmiano le ragazze e le donne più giovani.
“Welcome to Kenya” sostiene che, contro ogni norma del diritto internazionale, le autorità sottopongono i rifugiati a norme restrittive rigidissime e peraltro ingiustificate. Nonostante non ci siano problemi legati alla sicurezza nazionale o alla salute pubblica, la stragrande maggioranza dei somali registrati nei sovraffollati campi di Hagadera, Ifo e Dagahaley non può infatti allontanarsi dalle tendopoli e i pochi permessi speciali concessi dal governo sono rilasciati per recarsi a Nairobi per motivi medici o di studio. Tra i 300.000 rifugiati presenti a Dadaab, nel 2009 solo in 6.000 hanno potuto lasciare i campi regolarmente; chi viaggia sprovvisto del regolare permesso viene arrestato e, se non ha niente da offrire, viene tradotto a Garissa, dove viene multato o incarcerato.
A far si che si potesse assistere ad un tale scempio e che la tragedia di un popolo potesse diventare ancora una volta una grande macchina per fare soldi, hanno certamente contribuito le decisioni del governo keniota, che nel 2007 ha chiuso la frontiera con la Somalia e il centro di transito di Liboi, un posto di primo rifugio gestito dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) dove si stima siano passati centinaia di migliaia di somali.
Dal 2007, per attraversare il confine, i profughi si sono perciò dovuti affidare alla clandestinità e la polizia ha iniziato a sfruttare questa nuova condizione, minacciandoli con arresti ed espulsioni per estorcergli denaro. Nonostante il diritto internazionale proibisca la deportazione e il respingimento forzato dei rifugiati, per ordinarne l’espulsione o l’arresto dei malcapitati le autorità keniote sono addirittura ricorse all’accusa di terrorismo o di appartenenza al gruppo integralista islamico Al-Shabaab. In realtà, secondo il Kenya Refugee Act, i profughi dovrebbero essere registrarsi e, indipendentemente dal modo in cui sono entrati nel Paese, dovrebbero ottenere asilo ed assistenza.
Dopo anni di guerra civile, carestie e disastri naturali, in Somalia la situazione è diventata insostenibile. La malnutrizione acuta colpisce il 17% della popolazione e il tasso di mortalità infantile è tra i più alti del mondo, con 225 bambini morti per 1000 nati vivi. Meno del 30% della popolazione ha accesso all’acqua potabile e questo influisce in modo determinante sulle cause principali di morte che, oltre alla guerra, sono la dissenteria, le infezioni respiratorie a la malaria. Tra i profughi di Dadaab le cose non vanno meglio: Hagadera, Ifo e Dagahaley ospitano il triplo della loro capienza massima e molti rifugiati vivono in una situazione di estrema precarietà, tra violenze e soprusi; uno scandalo che si nutre anche del complice silenzio della comunità internazionale.
Fonte: Altrenotizie
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