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Messaggio Da fio Sab Dic 15, 2012 7:21 pm

Franco Pini, angelo degli altri

Chissà quale piega avrebbe preso il futuro di Franco Pini se quel giorno in Iran, nel lontano 1977… Il fatto è che a quel tempo Franco Pini, bergamasco di Ponteranica, classe 1932, mortaista del 5° Alpini battaglione Tirano, andava girando il mondo in lungo e in largo. In sella alla sua Motom Delfino 160, comprata a rate, e poi ad una Gilera 150, s’era spinto fino a Capo Nord, novemila e passa chilometri. Ma di fatto non s’era fatto mancare niente: Marocco, deserto libico, Emirati arabi, Iran, Iraq, Kurdistan, Turchia, Egitto, Sudan, Sud Sudan, Juba, Uganda… Viaggi intrapresi prendendo ferie dall’azienda tessile dove lavorava, e soprattutto concordate con la moglie Rosetta che, a casa, vegliava sui quattro figli che avevano messo al mondo.

Per tornare a quel 1977 il Franco che, nella bergamasca qualcuno definiva amabilmente “mia trop registrat”, aveva pensato bene di spingersi fino in India. Yugoslavia, Bulgaria, Turchia, Iran, Afghanistan (da poco invaso dai Russi) e poi giù fino all’India, passando dal Pakistan. Tutto bene all’andata, ed anche al ritorno, almeno fino all’arrivo in Iran dove la fine del potere dello Scià già portava allo scoperto l’intolleranza dei talebani seguaci di Khomeini. E proprio loro, refrattari a qualsiasi presenza straniera ed occidentale una bella notte decisero di far fuori l’intruso.

Franco Pini ricorda solo che si era accampato in una piccola tenda per passare la notte. Si sarebbe risvegliato dopo un coma di alcuni giorni in un vicino ospedale da campo. Avevano tagliato la tenda e poi lo avevano colpito fino a crederlo morto. Quindi, come un sacco di rifiuti lo avevano gettato in una scarpata. Fu solo per un disegno strano del destino, ma che Franco Pini chiama Provvidenza, se un soldato iraniano vide per caso quel corpo ridotto come un pupazzo rotto. Dopo un mese di ospedale, ancora incapace di reggersi in piedi lo accompagnarono verso il confine, augurandogli buona fortuna.

Non conosciamo quali fossero gli obiettivi nascosti dietro quell’augurio, sta di fatto che il nostro “vagabondo” incontrò anche lui il suo samaritano. Era un iraniano diretto in Europa. «Non preoccuparti – gli disse – ti porto io in Italia». Gli fece assistenza e gli pagò tutte le spese di alloggio lungo il percorso, senza chiedergli nulla in cambio. Al mattino pregavano insieme. Uno sul proprio tappetino, rivolto alla Mecca, l’altro con le mani giunte pensando a Gesù Cristo. Fu così che Franco, di tappa in tappa e incapace di reggersi in piedi, arrivò in Yugoslavia. Qui il suo salvatore lo mise su un treno per Milano, quindi le loro strade si divisero. Tornato a casa, Franco si pose una domanda. Soprattutto iniziò una riflessione di vita che lo portò a maturare una decisione.

La domanda era un interrogativo sul perché dei suoi viaggi. Non se l’era mai chiesto, ma ora aveva capito che nella vita stava andando in cerca di qualcosa. O forse di Qualcuno? Era solo curiosità quella sua voglia di esplorare il mondo o era piuttosto un’inquietudine dell’animo che aveva bisogno di risposte più alte? L’unica certezza che maturò e che lo aiutò a rientrare in se stesso era che Dio raggiunge l’umanità attraverso “angeli”, che hanno le mani e il cuore delle persone concrete. Lui il suo angelo l’aveva incontrato nelle sembianze di un iraniano, uno straniero. Chi ha fede chiama questo Provvidenza. Per chi non ce l’- ha basta guardare il nome scritto sulla carta di identità. Franco Pini capì che ognuno deve essere “angelo” per gli altri. L’occasione per provarlo gliela diede un missionario passionista. Era di passaggio al suo paese, ma giù in Kenia avevano bisogno di fare una canonica.

Oddio, non è che lui si fosse mai interessato di muratura, anche se da alpino ormai s’era fatto una certa esperienza, come volontario nelle varie emergenze. Alessandria ai tempi dell’alluvione, poi in Irpinia e, soprattutto a Buja in Friuli nel ’76. Detto fatto, nell’80 Franco si lancia nella grande avventura. Prima a Tonga e poi, da qui, con una interminabile marcia fino ad uno sperduto villaggio vicino al lago Vittoria, Nyagwethe. Un agglomerato di capanne di 500 abitanti, dove non esisteva niente di niente. Da allora diventerà la sua terra d’adozione. Tre mesi là e tre mesi in Italia, per raccogliere fondi. Così a partire dall’82, con una serie interminabile di iniziative, cambierà la storia di quel luogo trasformandolo in ambita terra di immigrazione.

Quattromila e passa abitanti sono l’esito di un investimento sociale i cui frutti sono in piena maturazione. Franco comincia da subito con un piccolo ospedale, il Bergamo Hospital, con annessa vicina “Ussl 29 bis”, sempre per segnare le radici di provenienza. E poi scuole (1.200 alunni), mense, guesthouse, supermercato, mercato all’aperto, impianto idrico con cinque chilometri di condotte, impianto elettrico, chiesa… A dire il vero quando gli proposero di fare quest’ultima, lui, che pure è un cristiano fin nelle midolla, nicchiò per un certo periodo. Non voleva che i cristiani apparissero dei privilegiati. Si arrese quando tutti, cristiani, animisti e non credenti fecero le fondamenta per partire con la nuova costruzione. Tante iniziative richiedevano non solo sforzo economico, ma anche competenze gestionali. L’alpino “bala rossa”, così si definisce per via della nappina del Tirano, non ci ha pensato due volte.

Tornato in Italia ha fatto corsi da infermiere professionale, di ostetricia, di malattie tropicali, di odontoiatria… Una preparazione a 360° che gli consente di togliere i denti, prendere le impronte per le protesi, di curare molte malattie e di coordinare un gruppo di infermieri che, con lui mandano avanti il piccolo ospedale. Soprattutto si vanta d’essere al servizio della vita facendo nascere creature sane e con prospettive di vita sempre più rassicuranti. Racconta con soddisfazione di come ha ridato vita ad una bambina nata con arresto cardiaco, dopo un’ora e un quarto di massaggio. Oggi è vispa più che mai e si chiama Rosetta, come la moglie. Alla domenica e con i malati fa anche il sostituto del prete.

Questi viene di quando in quando e consacra un botto di particole. Poi ci pensa il Franco a fare letture, commenti e distribuire il pane consacrato. A tempo perso fa anche il prete, come l’ha chiamato un giornalista. Lui sorride e si schernisce. In realtà fa questo e molto di più. A parte Nyagwethe, sono tre le parole che scandiscono la sua vita. Italia, alpini e vangelo. Per la sua terra conserva un amore a tutto tondo. Il 17 marzo, anniversario dell’Unità d’Italia ha fatto ammainare la bandiera keniota ed ha issato quella tricolore. Quanto agli alpini confessa di avere due cappelli. L’originale a casa, il secondo in Africa. Lo porta sempre, anche là tra i suoi negri. Come cristiano raccomanda a tutti di credere nella Provvidenza e di darsi da fare perché con le nostre mani arrivi dovunque.

L’hanno coperto di decorazioni, di premi e riconoscimenti. Ma lui non sembra scomporsi più di tanto. Gli basta l’amore di sua moglie, altrettanto attiva con gli anziani del vicinato, e quello dei suoi figli che, dalle assenze del padre hanno imparato l’alfabeto della gratuità e dell’altruismo. Per sé Franco Pini non sembra chiedere nulla. Per capire quanto ha già ricevuto basta guardarlo negli occhi quando sorride.
Luca Di Stefano
Fonte:L'Alpino- Organo ufficiale dell'Associazione Nazionale Alpini
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